PATRICIA HIGHSMITH

IL TALENTO DI MR. RIPLEY

(The Talented Mr. Ripley, 1956)

 

1

 

Tom sbirciò alle sue spalle e scorse l'uomo che lo seguiva uscire dietro di lui dal Green Cage. Accelerò il passo, ma non c'era ombra di dubbio. L'uomo era proprio alle sue calcagna. Tom lo aveva notato cinque minuti prima mentre questi lo osservava con insistenza da un altro tavolo, come se non fosse proprio del tutto sicuro, ma quasi. A Tom, però, era sembrato sicuro abbastanza da indurlo a bere d'un fiato il suo drink, pagare in gran fretta e lasciare il locale.

Giunto all'angolo si protese in avanti e affrettò il passo oltre la Quinta Strada. Era nelle vicinanze di Raoul's. Si chiese se fosse il caso di correre il rischio di entrare e farsi un altro bicchiere. Doveva sfidare la sorte con tutte le conseguenze ehe ne derivavano oppure era meglio squagliarsela verso Park Avenue cercando di seminare quel tipo entrando e uscendo da qualche portone male illuminato? Si decise ed entrò da Raoul's.

Mentre cercava uno sgabello libero al banco, si guardò intorno quasi automaticamente per vedere se c'era qualcuno che conosceva. C'era quell'omaccione dai capelli rossi, di cui dimenticava regolarmente il nome, seduto a un tavolo con una biondina. Il rosso salutò con la mano e Tom gli indirizzò un vago cenno di risposta. Appoggiò negligentemente una gamba sullo sgabello e si volse, con aria a metà fra la sfida e l'innocente noncuranza, verso la porta di ingresso.

«Gin and tonic, per favore,» chiese al barman.

Era questo, dunque, il tipo d'uomo che gli avrebbero messo alle costole? Lo era o non lo era? Forse lo era. Non aveva l'aria di un piedipiatti, però, e neppure di un detective privato. Aveva piuttosto l'aria di un distinto uomo d'affari, di un buon papà. Era un signore vestito con cura, indubbiamente ben nutrito, con le tempie grigie e qualcosa di vago e insicuro nel modo di comportarsi. Doveva essere il genere di persona che ti mettono alle calcagna per incastrarti, magari per agganciarti con quattro chiacchiere innocenti in un bar e poi bang ti ritrovi con una mano sulla spalla e l'altra che ti sventola sotto il naso un distintivo da poliziotto. «Tom Ripley, sei in arresto!» Tom tenne d'occhio la porta.

Eccolo che arrivava. L'uomo si guardò intorno, lo vide subito e volse lo sguardo altrove. Si tolse il cappello di paglia e si sedette all'estremità opposta del bancone ricurvo.

Santo cielo, ma che cosa cercava? Di sicuro non era un pervertito. Tom si soffermò su questa idea mentre il suo cervello smarrito brancolava nel buio alla ricerca del termine esatto, come se questo potesse proteggerlo. Era preferibile, infatti, che l'uomo fosse un pervertito piuttosto che un piedipiatti. A un pervertito era sempre possibile rispondere: «No, grazie», fare un sorriso di intesa e andarsene. Tom si sistemò meglio sullo sgabello, cercando di darsi un contegno.

Con la coda dell'occhio scorse l'uomo fare un gesto di intesa al barman e muoversi verso di lui. Eccolo! Tom lo fissò semiparalizzato. Certo non avrebbero potuto affibbiargli più di dieci anni, pensò Tom. Quindici al massimo, ma con la buona condotta, forse... In quel momento le labbra dell'uomo si schiusero per parlare. Tom fu sopraffatto da un'ondata di disperato, angoscioso rimpianto.

«Mi scusi, signore. È lei Tom Ripley?»

«Sì.»

«Mi chiamo Herbert Greenleaf. Sono il padre di Richard Greenleaf.» L'espressione sul viso dell'uomo sgomentò Tom più che se gli avesse puntato una rivoltella sotto il naso. Era un viso amichevole, sorridente e fiducioso. «Lei è amico di Richard, vero?»

Quel nome gli ricordava vagamente qualcuno. Sì, Dickie Greenleaf. Un tipo alto e biondo. Ricco, molto ricco, ricordò Tom. «Oh, Dickie Greenleaf, ma sicuro!»

«A ogni modo, lei conosce Charles e Marta Schriever, vero? Sono stati loro a parlarmi di lei, a dirmi che lei forse... cioè... Senta, perché non ci sediamo a un tavolo?»

«Ma certo,» rispose Tom accondiscendente e lo seguì fino a un tavolo in fondo alla saletta portandosi dietro il suo bicchiere.

Per questa volta l'ho scampata, pensava intanto. Sono libero! Nessuno lo avrebbe arrestato. Era una faccenda di tutt'altro genere. Di qualunque cosa si trattasse, non era questione di furto aggravato, truffa o manomissione di corrispondenza o come diavolo si chiamava. Forse Richard si era cacciato in qualche pasticcio e il signor Greenleaf cercava aiuto e consiglio. Tom sapeva già che cosa dire a un padre come quello.

«Sa, non ero del tutto sicuro che lei fosse proprio Tom Ripley,» diceva intanto Greenleaf. «Credo di averla vista una sola volta prima di oggi. Non è venuto una volta a casa nostra con Richard?»

«Mi pare proprio di sì.»

«Gli Schriever mi hanno fatto una descrizione molto accurata del suo aspetto. Abbiamo anche cercato di metterci in contatto telefonico con lei, perché gli Schriever desideravano che ci incontrassimo a casa loro. Poi qualcuno ci ha detto che di tanto in tanto lei andava al Green Cage. Stasera è la prima volta che tento di rintracciarla con questo sistema, credo proprio di potermi considerare fortunato!» Gli sorrise. «La settimana scorsa le ho scritto un biglietto, forse non l'ha ancora ricevuto.»

«No, infatti.» Marc non gli rispediva la posta, pensò Tom. Maledetto idiota. Forse nel mucchio c'era persino un assegno di zia Dottie. «Ho traslocato da poco più di una settimana,» gli spiegò.

«Oh, capisco. Comunque in quel biglietto non dicevo gran che. Solo che avrei gradito incontrarla e scambiare quattro chiacchiere con lei. Gli Schriever erano dell'idea che lei conoscesse Richard molto bene.»

«Lo ricordo bene, sicuro.»

«Adesso però non siete più in contatto, non vi scrivete, vero?» Sembrava deluso.

«No. Saranno un paio d'anni che non vedo Dickie.»

«È in Europa per l'appunto da due anni. Gli Schriever hanno un'opinione molto alta di lei; così ho pensato che lei potesse avere un certo ascendente su Richard, magari scrivendogli una lettera. Vorrei convincerlo a ritornare a casa. Ha delle responsabilità che lo attendono, qui. Eppure in questo momento si disinteressa di qualunque cosa gli diciamo io e sua madre.»

Tom era perplesso. «Che cosa le hanno detto gli Schriever di me?»

«Mi hanno detto, ma forse hanno esagerato un pochino, che lei e Richard eravate amici intimi. Immagino che dessero per scontato che vi foste tenuti in contatto. Vede, conosco così pochi amici di Richard e...» lanciò un'occhiata al bicchiere di Tom come per invitarlo a berne un altro, ma il bicchiere era ancora quasi pieno.

Tom ricordò di essere stato a un party dagli Schriever in compagnia di Dickie Greenleaf. Forse i Greenleaf erano in rapporti più stretti con gli Schriever di quanto non lo fosse lui. Era così che doveva essere nato l'equivoco, dato che lui aveva incontrato gli Schriever solo tre o quattro volte in tutta la sua vita. L'ultima volta, però, ricordò Tom, era stata la sera in cui aveva calcolato le tasse e l'imponibile per Charley Schriever. Charley era un regista televisivo e un grande pasticcione per tutte le questioni contabili. Charley aveva pensato che Tom fosse un genio perché era riuscito a far risultare un reddito minore facendogli pagare, per di più in modo del tutto legittimo, meno tasse di quanto avesse calcolato lui. Forse era stato questo episodio a indurre Charley a raccomandare Tom al signor Greenleaf. A giudicare da quella serata, Charley doveva essersi fatto l'opinione che Tom fosse un giovane intelligente, assennato, scrupolosamente onesto e sempre pronto a rendersi utile. Non sapeva quanto si sbagliava!

«Immagino che lei non conosca nessun altro abbastanza vicino a Richard che possa avere una buona influenza su di lui, vero?» chiese Greenleaf in tono querulo.

C'era Buddy Lankenau, pensò Tom, ma non aveva nessuna intenzione di affibbiare un compito così ingrato al povero Buddy. «No, temo proprio di no,» rispose Tom scuotendo il capo. «Ma perché Richard non vuole tornare a casa?»

«Dice che preferisce vivere lì. Adesso, però, sua madre è molto malata. Ma lasciamo perdere, questi sono problemi familiari. Non vorrei annoiarla con questi discorsi.» Si passò una mano con aria sconsolata fra i capelli grigi, sottili e ben pettinati. «Dice che sta dipingendo. Certo non c'è nulla di male, in questo! Il fatto è che non ha il minimo talento per diventare un vero pittore. In realtà, avrebbe un grande talento per progettare scafi, se solo si decidesse ad applicarcisi un po'.» Cercò con lo sguardo il cameriere e ordinò: «Uno scotch con soda, per favore. Lei è pronto per un altro?»

«No, grazie.»

Il signor Greenleaf lanciò a Tom un'occhiata di scusa. «Lei è il primo fra tutti gli amici di Richard che abbia mostrato un po' di interesse per il problema. Si comportano tutti come se stessi intromettendomi in faccende che non mi riguardano.»

Tom li capiva perfettamente. «Vorrei poterle essere utile,» rispose educatamente. Adesso ricordava che tutti i soldi di Dickie provenivano da un cantiere navale. Progettazione e costruzione di piccole barche da diporto. Non c'era da stupirsi che il padre desiderasse che il figlio tornasse a casa e si decidesse a occuparsi dell'impresa paterna. Tom sorrise vagamente a Greenleaf e terminò il suo drink. Si era quasi alzato in piedi per accomiatarsi, ma la delusione del suo compagno fu talmente evidente che si fece forza e chiese: «E dove si trova di bello adesso Dickie?» per quanto non gli importasse proprio nulla saperlo.

«In un paesino a sud di Napoli che si chiama Mongibello. Pare che non ci sia neppure una biblioteca, tanto è piccolo. Passa il suo tempo fra la sua barca a vela e la pittura. Si è comprato una casa. Richard ha una piccola rendita personale; niente di grandioso, intendiamoci, ma sufficiente a tirare avanti in Italia, a quanto pare. Bene, ognuno ha i suoi gusti, io però non riesco proprio a capire cosa ci trovi in quel posto!» Poi, con un sorriso aperto: «Proprio sicuro che non le vada un altro drink, signor Ripley?» insistette quando il cameriere arrivò con il suo scotch. Tom aveva voglia di andarsene. Ma non sopportava l'idea di lasciare solo l'uomo davanti al bicchiere pieno. «Grazie, credo che accetterò,» rispose porgendo il suo bicchiere al cameriere.

«Charley Schriever mi ha detto che si occupa di assicurazioni,» proseguì amabilmente il signor Greenleaf.

«Roba di molto tempo fa. Adesso...» Tom esitò. Non gli andava di raccontare che ora lavorava per l'ufficio Imposte dirette, non era il momento. «Adesso lavoro nel reparto contabilità di un'agenzia di pubblicità.»

«Ma davvero?»

Tacquero entrambi per un minuto buono. Lo sguardo di Greenleaf era fisso su di lui con un'espressione patetica e piena di speranza. Cosa diavolo poteva dirgli? Rimpianse di avere accettato da bere.

«Quanti anni ha adesso Dickie?» chiese, tanto per dire qualcosa.

«Venticinque.»

Come me, pensò Tom. Probabilmente Dickie se la stava spassando come un nababbo, laggiù. Una rendita fissa, una casa e una barca. E perché mai avrebbe dovuto aver voglia di rientrare in America? Ora il viso di Dickie emerse nitido nella sua memoria. Aveva un sorriso franco, capelli biondicci ondulati e un'espressione da cuor contento. In effetti Dickie aveva tutte le ragioni per essere soddisfatto. Lui, invece, cosa stava combinando alla sua età? Vivacchiava così, arrangiandosi. Niente conto in banca. E adesso, per la prima volta da quando era al mondo, ridotto a farsi dar la caccia dai piedipiatti. Aveva il bernoccolo della matematica, perché diavolo non c'era nessuno disposto a pagarlo per questo? Tom si rese conto di essersi irrigidito; la bustina di fiammiferi che stringeva in mano era tutta accartocciata. Ne aveva abbastanza, stramaledettamente abbastanza! Gli venne voglia di ritornarsene al banco da solo, in pace.

Bevve un sorso del suo drink. «Se mi dà l'indirizzo potrei provare a scrivere a Dickie,» disse in un fiato. «Credo che si ricordi di me. Una volta siamo andati insieme a una grande festa di fine settimana a Long Island. Ricordo che Dickie e io ce ne siamo andati a pescare cozze e poi le abbiamo mangiate tutti insieme per colazione,» proseguì sorridendo fra sé. «Un paio del gruppo sono stati male e la festa non è stata per niente divertente. Però io e Dickie abbiamo parlato a lungo di andarcene in Europa. Lui deve essere partito proprio...»

«Me lo ricordo!» lo interruppe il signor Greenleaf con entusiasmo. «È stato l'ultimo weekend che Richard passò qui. Mi ha raccontato delle cozze.» Poi scoppiò a ridere rumorosamente.

«Sono venuto anche alcune volte a casa vostra,» proseguì Tom lasciandosi trascinare dal racconto. «Dickie mi fece vedere alcuni modellini di barche che teneva sul tavolo in camera sua.»

«Oh, quelli sono solo lavoretti da ragazzo!» Adesso Greenleaf era raggiante. «Le ha mai fatto vedere i suoi modellini a intelaiatura? Oppure i suoi progetti in scala?»

Dickie non glieli aveva mostrati, ma Tom mentì spudoratamente. «Ma sì, naturalmente! Disegni a inchiostro di china. Alcuni erano veramente affascinanti.» Malgrado non fosse affatto vero, Tom se li vedeva davanti precisi, curati, tracciati da una mano esperta e professionale, con ogni linea, ogni cavo e ogni incastro minuziosamente numerati. Si figurava anche il sorriso rapito di Dickie che li prendeva in mano e li rigirava per mostrarglieli in ogni minimo dettaglio. Avrebbe potuto andare avanti così per parecchi minuti, lavorando di fantasia per il piacere del suo interlocutore, ma si frenò.

«Sì, indubbiamente Richard ha un gran talento per queste cose,» annuì Greenleaf con aria soddisfatta.

«Direi proprio di sì,» convenne Tom. Adesso la sua noia era svanita, lasciando il posto a uno stato d'animo completamente diverso. Tom conosceva bene quel meccanismo. Lo aveva vissuto parecchie volte ai party, ma più frequentemente quando era costretto a cenare con qualcuno con cui non aveva voglia di stare e la serata si protraeva oltre il limite della sopportazione. Adesso, Tom avrebbe potuto essere gentile, in modo quasi maniacale, per un'ora e forse anche di più, se fosse stato necessario. Poi, sarebbe scattato qualcosa dentro di lui e sarebbe quasi fuggito verso la porta. «Mi dispiace di non essere libero in questo momento, altrimenti potrei andare da Richard e cercare di convincerlo. Forse potrei avere una certa influenza su di lui,» continuò, solo perché il suo interlocutore si aspettava che lo facesse.

«Lo pensa sul serio? Voglio dire, ha in mente di recarsi in Europa?»

«No, direi proprio di no.»

«Richard è sempre stato così influenzabile dagli amici. Se lei, o qualcuno come lei che lo conosce bene potesse prendersi un permesso dal lavoro, sarei ben felice di contribuire alle spese del viaggio. Sarebbe senz'altro più utile che se ci andassi io, comunque!»

Il cuore di Tom fece un balzo. Assunse un'espressione pensosa. Era una possibilità. Qualcosa dentro di lui l'aveva intuito subito, prima che se ne rendesse conto razionalmente. Lavoro attuale: nessuno. C'era la possibilità di tagliare la corda dalla città molto presto. E poi aveva sempre desiderato andarsene da New York. «Forse potrei,» disse pensieroso, come se stesse riflettendo velocemente e correndo col pensiero a tutti i piccoli impegni che avrebbero potuto impedirgli la partenza.

«Se lei fosse disposto ad andarci, inutile dire che mi occuperei io di tutto l'aspetto finanziario. Crede davvero di poterlo fare? Magari entro quest'autunno?»

Era già metà settembre. Tom fissò l'anello d'oro con il sigillo consumato ai bordi che il signor Greenleaf portava al mignolo. «Credo che si possa fare. Mi farebbe molto piacere rivedere Richard, soprattutto se questo gli potrà essere di aiuto.»

«Oh, senz'altro! Credo che a lei darebbe retta. Poi, per il fatto stesso che non vi conoscete neppure così bene... Insomma, se lei insiste e gli spiega per bene perché ritiene che sia giusto che torni a casa, lui non potrebbe certo pensare che lei sta tirando l'acqua al suo mulino.» Il signor Greenleaf si appoggiò allo schienale della sedia guardando Tom con aria soddisfatta. «La cosa più strana è che Jimmy Burke e sua moglie - Jim è il mio socio d'affari - sono andati l'anno scorso a Mongibello in crociera. Allora Richard promise che sarebbe sicuramente tornato a casa all'inizio dell'inverno. Cioè dell'inverno scorso, voglio dire. Così Jim ha rinunciato a insistere. D'altra parte quale giovane di venticinque anni è disposto a dar retta a un vecchio di sessant'anni suonati? Sono proprio convinto che lei avrà successo laddove tutti noi abbiamo fallito!»

«Me lo auguro!» ribatté Tom con modestia.

«E adesso, che ne direbbe di un altro goccio? Le va un buon brandy?»

 

2

 

Era ormai passata la mezzanotte quando Tom si avviò verso casa. Il signor Greenìeaf si era offerto di dargli un passaggio in taxi, ma Tom non desiderava che vedesse dove viveva, quello squallido palazzotto di mattoni rossastri fra la Terza e la Seconda Strada con un cartello di AFFITTASI STANZE appeso sulla porta di ingresso. Nelle ultime due settimane e mezzo Tom aveva vissuto con Bob Delancey, un tipo che conosceva appena, eppure Bob era stato l'unico fra gli amici e le conoscenze di Tom, in tutta New York, che si era dichiarato disponibile a ospitarlo quando questi si era trovato senza alloggio. Tom non aveva invitato nessuno ad andare a trovarlo a casa di Bob, anzi, non aveva neppure detto a nessuno dove abitava. Il vantaggio principale della sistemazione da Bob era costituito dal fatto che poteva farsi spedire lì tutta la corrispondenza sotto il nome di George McAlpin, con un rischio minimo di essere individuato. Ma che desolazione quel cesso fetido in fondo al corridoio con la serratura che non funzionava e quella tetra stanzetta dove sembrava fossero passati almeno un migliaio di occupanti lasciandosi dietro l'impronta della loro sporcizia, senza mai preoccuparsi di muovere un dito per ripulirla! E poi quelle cataste traballanti di Vogue, di Harper's Bazar e quelle ingombranti coppe di pretenzioso vetro fumé sparse un po' dappertutto, piene di pezzetti di corda e di elastico tutti aggrovigliati, di matite, di mozziconi di sigarette e di frutta marcia! Bob era un vetrinista che lavorava a contratto; in quel momento, però, gli unici incarichi che gli erano stati commissionati erano lavoretti occasionali per alcuni antiquari della Terza Strada. Era stato in uno di questi bugigattoli di antiquariato che gli avevano dato, come compenso per le sue prestazioni, quelle orribili coppe di vetro fumé. Tom era rimasto disgustato davanti allo squallore di quella casa, disgustato persino di conoscere qualcuno che potesse vivere in quelle condizioni. Sapeva, però, che non ci sarebbe rimasto a lungo. E adesso era arrivato all'orizzonte il signor Greenleaf. Prima o poi succedeva sempre qualcosa. Era la filosofia di Tom.

Prima di cominciare a salire i sordidi gradini di pietra, Tom si fermò e si guardò intorno con aria sospettosa. In giro non si vedeva nessuno, tranne una vecchia che portava a spasso il cane e un vecchio traballante che stava girando proprio in quel momento l'angolo della Terza Strada. Se c'era una sensazione che detestava era quella di sentirsi seguito, da chiunque fosse. Negli ultimi tempi ne era stato ossessionato. Salì gli scalini di corsa.

Adesso quello squallore gli pesava, e molto, pensò mentre entrava nella stanza. Non appena avesse avuto il passaporto avrebbe preso il largo per l'Europa e per di più in una cabina di prima classe. Ci sarebbero stati stuoli di camerieri pronti a portargli qualunque cosa a un suo cenno! Si sarebbe vestito con l'abito da sera per la cena, avrebbe attraversato con aria noncurante la vasta sala da pranzo e avrebbe conversato amabilmente con gli altri commensali, come un vero gentiluomo! Quella sera poteva essere contento di sé, pensò. Si era comportato nel modo giusto. Il signor Greenleaf non poteva certo avere avuto l'impressione che lui gli avesse estorto quell'invito ad andare in Europa. Anzi, al contrario! Non avrebbe deluso le aspettative del signor Greenleaf. Avrebbe proprio fatto del suo meglio con Dickie. Il signor Greenleaf era un uomo talmente per bene! Magari il resto dell'umanità fosse tutta come lui! Tom aveva quasi dimenticato che al mondo esistesse gente così.

Lentamente si tolse la giacca e si sciolse la cravatta, curando ogni movimento come se li stesse compiendo per la prima volta. Incredibile che portamento eretto e che espressione diversa aveva adesso sul volto. Cacciò una mano nell'armadio strapieno di Bob e spostò con stizza le file di attaccapanni a destra e a sinistra in modo da creare un piccolo spazio per il suo vestito. Poi andò in bagno. La vecchia doccia rugginosa schizzava acqua dappertutto, tranne dove avrebbe dovuto, tanto che fece fatica a bagnarsi. Sempre meglio, però, che immergersi in quella vasca lurida e incrostata.

Quando si svegliò, il mattino seguente, Bob non c'era e, da un'occhiata al letto, Tom si rese conto che non era rientrato affatto. Balzò in piedi, andò al fornellino elettrico e mise il caffè a scaldare. Tanto meglio che Bob non fosse a casa quella mattina. Non aveva voglia di raccontargli del viaggio in Europa. Quel pezzente vagabondo vi avrebbe visto solo la possibilità di un viaggio gratis. Sarebbe stata l'opinione anche di Ed Martin, probabilmente, di Bert Visser e di tutti gli altri straccioni che conosceva. Non ne avrebbe parlato con nessuno, decise, e non avrebbe permesso a nessuno di venirlo a salutare alla partenza. Tom prese a fischiettare. Quella sera era invitato a cena a casa dei Greenleaf in Park Avenue.

Un quarto d'ora più tardi, lavato, rasato e vestito di tutto punto con un completo e una cravatta a righe che di sicuro avrebbero fatto bella figura sulla foto del passaporto, Tom camminava avanti e indietro per la stanza tenendo in mano una tazza di caffè scuro, impaziente che arrivasse la posta del mattino. Dopo aver ritirato la posta sarebbe andato a Radio City e si sarebbe occupato delle pratiche del passaporto. Poi come avrebbe passato il pomeriggio? Doveva andare a qualche mostra in modo da poterne parlare quella sera con i Greenleaf? Oppure era meglio che facesse qualche indagine sulla ditta Burke-Greenleaf, Watercraft Inc. in modo da far capire al suo ospite che si interessava del suo lavoro?

Tom udì lo scatto attutito della cassetta delle lettere attraverso la finestra aperta e scese subito di sotto. Attese che il postino si allontanasse, poi estrasse dalla fessura della cassetta, nella quale il postino l'aveva infilata di forza, la lettera indirizzata a George McAlpin. Tom l'aprì con impazienza. Ne estrasse un assegno di centodiciannove dollari e cinquanta centesimi pagabili all'esattoria delle Imposte dirette. Brava donna quella Edith W. Superaugh! Aveva pagato senza un fremito, senza neppure una telefonata! Era un buon auspicio. Salì di nuovo in camera, stracciò la busta della Superaugh e la gettò nella spazzatura.

Poi cacciò l'assegno in una busta scura che teneva nella tasca interna di una delle sue giacche appese nell'armadio. Questo alzava la cifra totale degli assegni in suo possesso a milleottocentosessantatré dollari e quattordici centesimi, calcolò a mente. Peccato non poterli incassare! Possibile che qualche idiota non avesse ancora fatto un assegno al portatore, oppure a nome di George McAlpin? Eppure niente da fare, per il momento. Tom aveva una tessera di riconoscimento di un portavalori di banca, trovata per strada, con una vecchia data che avrebbe potuto facilmente essere falsificata. Temeva, però, che fosse troppo rischioso incassare gli assegni anche se era in possesso di quell'autorizzazione ufficiale per una cifra illimitata. Così tutta la faccenda si riduceva a uno scherzo colossale. Un gioco divertente e niente di più! Non stava rubando niente a nessuno, in fondo. Prima di partire per l'Europa avrebbe distrutto gli assegni, decise.

Sulla lista figuravano altre sette vittime. Era il caso di provare con un'altra in quegli ultimi dieci giorni prima della partenza? Rientrando a casa, la sera prima, dopo il suo incontro con il signor Greenleaf, aveva stabilito che se la signora Superaugh e Carlos de Sevilla avessero pagato, ci avrebbe dato un taglio. Il signor de Sevilla non aveva ancora pagato. Probabilmente aveva bisogno di una bella scossa telefonica per spaventarsi a morte, pensò Tom. Però la Superaugh era stata una preda talmente facile che ebbe l'impulso di riprovarci, almeno un'altra volta.

Tom prese da una delle valigie nell'armadio una scatola color malva per la corrispondenza. Conteneva alcuni fogli di carta da lettere e, sotto questi, una pigna di moduli che si era portato via dall'ufficio Imposte dirette quando vi aveva lavorato come impiegato all'approvvigionamento alcune settimane prima. In fondo alla pigna c'era la lista delle sue vittime: personaggi selezionati con cura nelle zone del Bronx e di Brooklyn, ai quali molto probabilmente sarebbe costato troppo andare fino all'ufficio centrale delle Imposte a New York, per controllare di persona la situazione. Gente dalle entrate irregolari, come scrittori o artisti, che non avessero trattenute fiscali fisse e che guadagnassero fra i settemila e i dodicimila dollari l'anno. La gente che rientrava in quell'arco di reddito, aveva pensato Tom, difficilmente si rivolgeva a un esperto per calcolare le imposte dirette; d'altra parte guadagnava a sufficienza per giustificare in modo plausibile l'accusa di aver commesso un errore di due o trecento dollari nel computo delle proprie tasse. Fra questi c'erano William J. Slatterer, giornalista; Philip Robillard, musicista; Frieda Hoehn, disegnatrice; Joseph J. Gennari, fotografo; Frederick Reddington, grafico; Frances Karnegis... Tom si fermò. Non aveva ancora provato con Reddington. Era un grafico che si guadagnava da vivere disegnando vignette. Con tutta probabilità viveva nel caos più totale.

Scelse due moduli con l'intestazione AVVISO DI ERRORE, vi mise in mezzo un foglio di carta carbone e cominciò a ricopiare velocemente i dati che figuravano sotto il nome di Reddington. Reddito: 11.250 dollari; Esenzioni: 1 dollaro; Deduzioni: 600 dollari; Crediti: nessuno; Rimesse: nessuna; Interessi: (qui ebbe una breve esitazione) 2,16 dollari; Saldo a debito: 233,76 dollari. Quindi prese un foglio di carta da lettere intestata all'ufficio Imposte dirette, Lexington Avenue, cancellò l'indirizzo con una riga netta e scrisse a macchina:

 

Egregio Signore,

a causa di un flusso straordinario di corrispondenza al nostro Ufficio di Lexington Avenue, la preghiamo di indirizzare la sua risposta alla presente al seguente indirizzo:

Ufficio Revisioni

All'attenzione di George McAlpin

187, E. 51 Street

New York 22, N.Y.

Distinti saluti,

Ralph F. Fischer

Dir. Gen. Uff. Rev.

 

Firmò il foglio con uno sgorbio illeggibile. Mise via gli altri moduli nel caso Bob rientrasse all'improvviso e prese il telefono. Aveva deciso di dare a Reddington un piccolo avvertimento preliminare. Si fece dare dall'ufficio informazioni il numero di telefono e lo chiamò. Reddington era in casa. Tom gli spiegò brevemente la situazione e manifestò la sua sorpresa per il fatto che non avesse ancora ricevuto l'avviso dell'ufficio revisioni.

«Dovrebbe essere stato spedito alcuni giorni fa,» proseguì Tom. «Lo riceverà sicuramente entro domani. Sa, abbiamo avuto parecchio lavoro qui, ultimamente.»

«Ma io ho già pagato tutte le tasse,» rispose la voce allarmata dall'altro capo del filo. «È già tutto sistemato da...»

«Queste cose succedono, signor Reddington, quando si devono calcolare le tasse su redditi incostanti e senza trattenute fisse. Abbiamo fatto i calcoli che la riguardano con molta cura. Non c'è possibilità di dubbio e non ci farebbe affatto piacere dover schiaffare un'ipoteca sul suo stipendio o interpellare il suo agente o...» Ridacchiò. In genere quella risatina amichevole, quasi di complicità, faceva miracoli.

«Ma non potremo proprio evitarlo a meno che lei non paghi nel giro di quarantott'ore. Mi dispiace che non abbia ancora ricevuto l'avviso scritto. Come le dicevo, siamo stati molto...»

«C'è qualcuno con cui potrei parlare se venissi personalmente?» chiese Reddington con voce ansiosa. «Si tratta di un sacco di soldi, non le pare?»

«Ma certo che c'è.» In genere a questo punto la voce di Tom diventava cospiratoria. Suonava come quella di un arzillo vecchietto che sarebbe stato cordiale e paziente con il suo interlocutore, nel caso si fosse preso la briga di venire fin là di persona, ma che non avrebbe ceduto di un solo centesimo neppure se si fosse sgolato fino a farsi seccare la lingua. L'incaricato dell'ufficio Imposte dirette degli Stati Uniti d'America, signor mio, era proprio George McAlpin in persona. «Naturalmente può parlare con me, se lo desidera,» biascicò Tom, «ma non c'è possibilità d'errore, signor Reddington. Volevo solo farle risparmiare del tempo. Può venire quando vuole, naturalmente, ma ho la sua pratica proprio davanti agli occhi in questo istante.» Pausa di silenzio. Reddington non avrebbe avuto nessuna domanda da rivolgergli circa la sua pratica perché probabilmente non sapeva da che parte cominciare. Ma se per caso avesse osato chiedergli di spiegargli con precisione il problema, Tom aveva pronte un sacco di chiacchiere fumose circa il reddito netto contro il reddito accumulato, il saldo a debito contro il computo netto, l'interesse al sei per cento annuo maturato dalla data della tassazione fino al giorno del pagamento effettivo su qualunque saldo che rappresentasse la tassa sui profitti originari. Per di più era in grado di sciorinare tutte queste chiacchiere a bassa voce, in tono monotono e con l'incedere inarrestabile di una schiacciasassi. Fino a quel momento nessuno aveva insistito nel voler venire di persona per parlarne ancora un po'. Anche Reddington stava battendo in ritirata. Tom lo intuì dal suo silenzio sbigottito.

«Va bene,» cedette la vittima in tono tragico. «Vedrò cosa fare con questo preavviso domani, quando lo riceverò.»

«Ottima idea, signor Reddington, davvero ottima,» rispose Tom mellifluo e riagganciò.

Per un attimo rimase lì, ridacchiando fra sé, le mani affusolate strette fra le ginocchia. Poi balzò in piedi, mise via la macchina da scrivere di Bob, si pettinò con cura i capelli castano chiari e si mise in marcia verso Radio City.

 

3

 

«Salve, Tom, ragazzo mio!» lo salutò il signor Greenleaf con una voce foriera di ottimi drink, di una cena pantagruelica e di un letto per la notte, nel caso fosse stato troppo stanco per andarsene a casa. «Emily, ti presento Tom Ripley.»

«Sono così felice di fare la sua conoscenza!» Il tono era caldo e ospitale.

«Molto piacere, signora Greenleaf.»

Era proprio come se l'era aspettata: bionda, piuttosto alta e slanciata, abbastanza formale da ricordargli le buone maniere, eppure non priva della stessa ingenua disponibilità nei riguardi del mondo che distingueva anche il marito. Il signor Greenleaf fece strada nel soggiorno. Sì, c'era proprio già stato con Dickie.

«Il signor Ripley lavora nel settore assicurativo,» annunciò l'anziano signore e Tom pensò che doveva aver già bevuto parecchio oppure che fosse molto teso la sera prima, dato che ricordava bene di essersi dilungato a descrivere nei minimi particolari l'agenzia di pubblicità per la quale aveva detto di lavorare.

«Niente di straordinario,» si schermì Tom modestamente.

Una cameriera entrò nella sala con un vassoio di martini e di appetitose tartine.

«Il signor Ripley è già stato qui,» continuò Greenleaf. «È stato qui con Richard.»

«Ma davvero? Eppure non mi pare di averla mai incontrata,» replicò la donna con un sorriso. «Lei è di New York?»

«No, di Boston,» rispose Tom. Era la verità.

Circa mezz'ora più tardi, il tempo giusto, pensò Tom, per scolarsi i non pochi martini che il signor Greenleaf aveva insistito a mettergli in mano, procedettero verso la sala da pranzo dove li attendeva una tavola apparecchiata per tre, con tanto di candele e di tovaglioli di lino blu scuro, sulla quale troneggiava un intero pollo in gelatina. Prima, però, mangiarono antipasti e insalata russa di cui Tom andava pazzo. Lo disse ai suoi ospiti.

«Ma davvero? Anche Richard ne va pazzo!» esclamò la signora Greenleaf. «E poi gli è sempre piaciuto come la prepara la nostra cuoca. Peccato che non possa portargliene un po'.»

«Potrei metterla in valigia, insieme ai calzini,» ribatté Tom con un sorriso. La signora Greenleaf scoppiò a ridere. Poco prima gli aveva chiesto se poteva portare al figlio alcune paia di calzini di lana neri, comprati da Brooks Brothers, che Richard usava sempre.

La conversazione si trascinò monotona, ma la cena fu luculliana. Rispondendo a una domanda della sua ospite, Tom dichiarò di lavorare per un'agenzia pubblicitaria dal nome Rothenberg, Fleming e Barter. Poi, nominandola di nuovo, la chiamò deliberatamente Reddington, Fleming e Parker. Il signor Greenleaf non diede segno di aver colto la differenza. L'episodio ebbe luogo più tardi, quando Tom e l'anziano signore erano a tu per tu nel soggiorno.

«Ha studiato a Boston?» gli chiese il signor Greenleaf.

«No, signore. Sono stato un po' a Princeton, poi sono andato a trovare un'altra zia a Denver e ho deciso di finire l'università laggiù.» Tom rimase in attesa sperando che Greenleaf gli facesse qualche domanda su Princeton, ma non fu così. Tom era in grado di chiacchierare a lungo sui metodi di insegnamento alla facoltà di storia, sulle limitazioni e regole del campus e della struttura universitaria, sull'atmosfera dei balli di fine settimana, sulle tendenze politiche degli studenti, di tutto insomma. L'estate precedente Tom era stato a lungo con un ragazzo che studiava a Princeton. Questi non faceva altro che parlare della sua università e Tom lo aveva spremuto per saperne sempre di più, prevedendo che prima o poi quelle informazioni gli sarebbero tornate utili.

Tom aveva detto ai Greenleaf di essere stato cresciuto dalla zia Dottie a Boston. Lei lo aveva portato a Denver quando aveva sedici anni e, a dire il vero, aveva finito a malapena le superiori lì. C'era però un ragazzo che si chiamava Don Mizell che era stato a pensione in casa della zia Bea a Denver, quando c'era anche Tom. Questo ragazzo frequentava l'università del Colorado e a Tom sembrava quasi di esserci stato lui stesso.

«Si è specializzato in un settore particolare?» chiese ancora il signor Greenleaf.

«Mi sono diviso equamente fra la contabilità e la letteratura inglese,» rispose il giovane con un sorriso, conscio che la sua risposta era talmente deprimente che chiunque avrebbe desistito dal proseguire sull'argomento.

La signora Greenleaf li raggiunse con un album di fotografie e Tom sedette accanto a lei sul divano, mentre la donna girava le pagine. Richard che faceva i primi passi, Richard in un'enorme foto a tutta pagina, a colori rivoltanti e vestito da marinaretto, con i lunghi riccioli inanellati. L'album non lo interessò minimamente finché non arrivarono alle foto dell'adolescenza di Richard. Richard a sedici anni, agile, dalle lunghe gambe e i folti capelli ondulati. Dalle foto si rese conto che l'amico non era quasi cresciuto dai sedici ai ventitré anni. Sui ventitré, ventiquattro, le foto cessavano e Tom rimase molto stupito nel constatare quanto poco fosse cambiato il suo sorriso aperto e accattivante. Non poté fare a meno di pensare che Richard fosse un ragazzo poco intelligente, oppure che amasse farsi fotografare e pensasse di dare il meglio di sé quando sfoderava quell'insulso sorriso da un orecchio all'altro, cosa che confermava la sua ipotesi sulla scarsa intelligenza del giovane.

«Non ho ancora trovato cinque minuti di tempo per incollare queste qui,» cinguettava intanto la signora Greenleaf, porgendogli una pila di fotografie in una busta. «Sono tutte dell'Europa.»

Erano molto più interessanti. Dickie in quello che aveva l'aria di essere un piccolo caffè parigino, Dickie su una spiaggia. In parecchie di queste foto aveva la fronte aggrottata.

«Per la cronaca, questo qui è Mongibello,» proseguì la sua ospite indicandogli una foto di Dickie che tirava a riva una barca a remi. Sullo sfondo si intravedevano delle alture scoscese e aride e, lungo la spiaggia, una fila di linde casette bianche. «E questa qui è la ragazza, cioè l'unico altro cittadino americano dei dintorni.»

«Si chiama Marge Sherwood,» lo informò il signor Greenleaf. Sedeva dall'altro lato della stanza, ma stava proteso in avanti per non perdersi una sola battuta di quella parata di foto di famiglia.

La ragazza sedeva sulla spiaggia in costume da bagno, con le braccia strette intorno alle ginocchia piegate. Aveva un'aria sana e semplice, con una zazzera di capelli biondi scompigliati; insomma, il tipo all'acqua e sapone. C'era poi una bella istantanea di Richard seduto sul parapetto di una terrazza. Sorrideva, ma non era lo stesso sorriso che aveva indisposto Tom poco prima. Nelle foto europee Richard aveva l'aria più matura e pacata.

Tom si rese conto che la signora Greenleaf si era persa nella contemplazione del tappeto ai suoi piedi, e gli venne in mente che a tavola la donna aveva esclamato: «Vorrei non aver mai sentito parlare dell'Europa!» Il signor Greenleaf le aveva lanciato un'occhiata trepida e lei gli aveva sorriso in modo rassicurante, come se non fosse la prima volta che si sfogava in quel modo. Adesso i suoi occhi erano colmi di lacrime. Il marito stava già per alzarsi e andarle vicino.

«Signora Greenleaf,» esclamò Tom in tono cortese, «voglio che lei sappia che farò veramente tutto il possibile per convincere Dickie a tornare a casa!»

«Che Dio la benedica, Tom. Che Dio la benedica!» e strinse la mano che il giovane teneva appoggiata alla gamba.

«Emily cara, non credi che sia ora per te di andare a letto?» la esortò il marito chinandosi su di lei.

Tom scattò in piedi per salutare la padrona di casa.

«Spero che ritornerà ancora a trovarci prima della partenza, Tom. Da quando Richard è partito abbiamo così poche visite di gente giovane. Mi mancate molto!»

«Sarà un piacere per me tornare!» la rassicurò Tom.

Il signor Greenleaf lasciò la stanza insieme alla moglie e Tom restò in piedi, con le braccia sull'attenti e il capo eretto. In un grande specchio sulla parete scorse la sua immagine: era di nuovo quella di un giovane dal portamento elegante e fiero. Distolse lo sguardo. Stava facendo tutte le cose giuste e non avrebbe potuto comportarsi in modo più corretto. Eppure era roso da un vago senso di colpa. Quando, pochi attimi prima, aveva detto alla sua ospite: «farò tutto il possibile», ebbene, in fondo aveva detto la pura verità. Dopo tutto non stava cercando di far fesso nessuno!

Si sentì pervadere da un sudore freddo e cercò di rilassarsi. Ma di che cosa si preoccupava? Si era sentito così in forma quella sera! Quando aveva raccontato di zia Dottie... Di scatto Tom si irrigidì fissando la porta, ma questa rimase chiusa. Già, era stato l'unico momento della serata nel quale si era sentito a disagio, falso, come ci si sente quando si dice una bugia. Eppure era stata l'unica cosa vera di tutto il suo fantastico racconto: «I miei genitori sono morti quando ero ancora molto piccolo. Sono stato tirato su da mia zia a Boston.»

Il signor Greenleaf rientrò nella stanza. Tom ebbe l'impressione che la sua immagine pulsasse e si ingrandisse a dismisura. Sbatté le palpebre colto da un improvviso senso di terrore, come dall'impulso di attaccare prima di essere attaccato.

«Che ne direbbe di un bel brandy?» chiese Greenleaf aprendo un pannello davanti al caminetto.

È proprio come in un film, pensò Tom. Fra un attimo la voce del signor Greenleaf o di qualcun altro avrebbe esclamato: «Okay, basta così,» e lui si sarebbe lasciato andare e si sarebbe risvegliato da Raoul's davanti a un bicchiere di gin and tonic. No, meglio ancora, addirittura al Green Cage.

«Non le va?» chiese la voce di Greenleaf. «Non lo beva se non si sente.»

Tom fece un vago cenno di assenso e Greenleaf lo guardò con aria perplessa, prima di versare altri due brandy.

Un terrore gelido stava paralizzando il corpo di Tom. Gli era venuto in mente l'incidente al drugstore della settimana prima, per quanto ormai fosse tutto finito e in fondo lui non fosse veramente spaventato; non in quel momento, comunque, cercò di rassicurarsi. Nella Seconda Strada c'era un drugstore con una cabina telefonica di cui dava il numero nel caso qualcuna delle sue vittime insistesse per richiamarlo per discutere della faccenda delle imposte. Dava quel numero dicendo che si trattava di una linea diretta dell'ufficio revisioni dove lui era raggiungibile soltanto fra le tre e mezzo e le quattro di ogni mercoledì e venerdì. Nei giorni fissati, Tom faceva in modo di essere nei dintorni della cabina in attesa che il telefono squillasse. Scorgendo l'occhiata sospettosa del gestore del negozio la seconda volta che vi si era recato, Tom gli aveva detto di aspettare la telefonata della sua ragazza. Ma il venerdì precedente, alzando la cornetta una voce maschile gli aveva sibilato: «Sai di cosa stiamo parlando, vero, amico? Conosciamo il tuo indirizzo e se vuoi ti facciamo una visitina. Se però sei pronto, noi abbiamo la roba.» Il tono di quella voce era così autoritario e, allo stesso tempo, così mellifluo che Tom aveva pensato che si trattasse di uno strano scherzo e non aveva trovato nulla da ribattere. Poi, la voce aveva proseguito: «Allora ascolta, arriviamo subito. A casa tua.»

Uscendo dalla cabina le gambe di Tom tremavano come fossero fatte di gelatina, quindi aveva colto l'occhiata del gestore che lo fissava con uno sguardo colmo di terrore, come se quella telefonata si fosse spiegata da sola. Il padrone del locale trafficava con la droga ed evidentemente aveva paura che Tom fosse un agente in borghese venuto per incastrarlo. Tom era scoppiato a ridere ed era uscito dal locale ridendo a crepapelle e inciampando goffamente perché aveva le gambe ancora molli per la paura.

«Sta pensando all'Europa?» La voce del signor Greenleaf gli giunse ovattata, come dal fondo di una nebbia.

Tom prese il bicchiere che l'uomo gli porgeva. «Già, proprio così.»

«Spero che si goda il suo viaggio, Tom, oltre che avere una buona influenza su Richard. Sa, lei è molto piaciuto a Emily. Me l'ha detto lei, di sua iniziativa!» Poi, ruotando pensosamente il bicchiere fra le mani: «Mia moglie è malata di leucemia.»

«Oh, è una malattia molto grave, vero?»

«Sì, le resta meno di un anno di vita.»

«Mi dispiace, mi dispiace molto.»

Greenleaf tirò fuori dalla tasca un foglio di carta. «Ho qui una lista delle navi in partenza per l'Europa. Credo che il percorso da Cherbourg sia il più rapido e anche il più interessante. Da lì può prendere il treno navetta per Parigi e poi il vagone letto per Roma e quindi per Napoli.»

«Ottimo.» La cosa stava facendosi interessante.

«Da Napoli dovrà prendere la corriera per il paese dove vive Richard. Io gli scriverò di lei, ma non gli dirò che lei sta andando a trovarlo per mio conto.» Poi, con un sorriso: «Lo informerò che ci siamo incontrati, così, per caso. Richard dovrebbe essere in grado di ospitarla ma, se per un caso qualunque non potesse, in paese ci sono alcuni alberghetti. Immagino che lei e Richard vi intendiate al volo. Adesso, parlando di soldi...» Il signor Greenleaf gli scoccò un sorriso bonario. «Avevo pensato di darle seicento dollari in traveller's cheques, naturalmente il biglietto andata e ritorno sarà a parte. Pensa che possa andare? Con quei seicento dollari dovrebbe farcela comodamente per quasi due mesi e se gliene servono altri le basterà farmi un telegramma, ragazzo mio. Lei non ha l'aria di uno che butta i soldi dalla finestra.»

«Mi sembra più che sufficiente, signore.»

L'umore di Greenleaf, scaldato dal brandy, divenne sempre più gioviale e ciarliero, mentre quello di Tom diventava sempre più taciturno e risentito. Aveva voglia di andarsene di lì. Eppure desiderava andare in Europa e quindi l'approvazione di Greenleaf gli era necessaria. Quel breve periodo di tempo trascorso sul divano fu più angoscioso di quello nel bar la sera precedente, quando si era sentito così mortalmente annoiato, anche perché quella sera il solito meccanismo non era scattato. Più volte Tom balzò in piedi con il bicchiere in mano e prese a camminare avanti e indietro per la sala. Ogni volta che si guardava allo specchio vedeva che la sua bocca prendeva una piega amara all'ingiù.

Intanto il signor Greenleaf continuava a blaterare garrulamente del suo viaggio con Richard a Parigi, quando aveva solo dieci anni. Un racconto di una noia mortale. Se nei prossimi dieci giorni avesse avuto qualche incidente con la polizia, pensava intanto Tom, forse Greenleaf avrebbe potuto ospitarlo. Gli avrebbe raccontato che aveva subaffittato in gran fretta il suo appartamento, o una storia simile, e si sarebbe nascosto lì. Tom si sentiva malissimo, persino fisicamente.

«Signor Greenleaf, credo proprio che sia ora di andare.»

«Così presto? Ma volevo farle vedere... Non importa, sarà per un'altra volta.»

Tom sapeva che avrebbe dovuto chiedere: «Che cosa, signor Greenleaf?» e sfoderare tutta la sua pazienza mentre questi gli faceva vedere chissà che diavolo. Ma non ne ebbe la forza.

«Vorrei che visitasse il cantiere, naturalmente!» annunciò allegramente il suo ospite. «Quando pensa di poter tornare? Però dovrà venire per colazione in quel caso. Credo che sarebbe una bella cosa se potesse raccontare a Richard come è il cantiere in questi giorni.»

«Ma certo, penso di poter venire un giorno, nell'intervallo di colazione.»

«Mi telefoni quando vuole, Tom. Le ho già dato il mio biglietto da visita con il mio numero diretto. Mi basta che mi avverta mezz'ora prima e manderò subito una macchina a prelevarla al suo ufficio per portarla sul cantiere. Mangeremo un panino mentre lo visitiamo e poi la faccio riportare indietro.»

«Le telefono, allora,» tagliò corto Tom. Sentiva che se si fosse fermato un minuto di più nell'atrio fiocamente illuminato sarebbe svenuto, ma il signor Greenleaf aveva ripreso il suo implacabile chiacchiericcio e gli stava chiedendo se avesse letto un certo libro di Henry James.

«Le confesso proprio che non l'ho letto, signore. Non quello, purtroppo.»

«Niente di male,» replicò l'altro bonariamente con un sorriso.

Finalmente si strinsero la mano. Da parte di Greenleaf fu una stretta energica, lunga e soffocante. Poi la tortura ebbe termine. Ma l'espressione sofferente, quasi spaventata, non svanì dal suo viso. Tom la scorse ancora un'ultima volta mentre l'ascensore iniziava la discesa.

Si appoggiò alla parete della cabina con aria esausta, ma sapeva benissimo che nel momento in cui fosse arrivato nell'atrio e si fosse finalmente trovato in strada, si sarebbe messo a correre, a correre all'impazzata, senza fermarsi, fino a casa.

 

4

 

Mano a mano che i giorni passavano l'atmosfera della città si fece più estranea. Era come se qualcosa, il senso della realtà stessa o ogni linfa vitale, fosse fluito via da New York. Sembrava che l'intera città stesse inscenando una specie di finzione, una finzione colossale a esclusivo beneficio di Tom, con tutti quegli autobus, quei taxi, quella fiumana di gente che scorreva frenetica sui marciapiedi, gli spettacoli televisivi che blateravano in tutti i bar della Terza Strada, le insegne dei suoi mille cinema accese e rutilanti in pieno giorno e i suoi effetti sonori fatti di migliaia di automobili, clacson e voci umane che parlavano a vuoto. Era come se, nel momento stesso in cui la nave si fosse staccata dalla banchina, quel sabato, l'intera città di New York fosse destinata ad afflosciarsi con un suono soffocato, come un fragile scenario di cartapesta.

O forse aveva paura. Odiava l'acqua. Prima di quel momento non era andato in nessun posto per mare, a eccezione del tragitto New York-New Orleans e ritorno; però in quell'occasione faceva il mozzo su un cargo che trasportava banane e aveva lavorato quasi esclusivamente sotto coperta, per cui a mala pena si era reso conto di navigare. Le rare volte che era salito sul ponte, la sola vista dell'acqua l'aveva dapprima terrorizzato e quindi la nausea l'aveva invaso, costringendolo a precipitarsi di nuovo sotto coperta dove, contrariamente a quanto avviene in genere, si sentiva invariabilmente meglio. I suoi genitori erano annegati nel porto di Boston e Tom aveva sempre pensato che la sua paura avesse qualcosa a che vedere con quell'incidente. Fin dove riusciva a risalire con la memoria, l'acqua l'aveva sempre terrorizzato, al punto che non aveva mai imparato a nuotare. Il pensiero che fra meno di una settimana sarebbe stato completamente circondato dall'acqua, profonda migliaia di metri, e che non avrebbe potuto fare a meno di vedersela sempre davanti agli occhi, dato che i viaggiatori dei transatlantici in genere passano la maggior parte del loro tempo sul ponte, lo soffocò con un senso di nausea alla bocca dello stomaco. Inoltre soffrire di mal di mare era terribilmente poco chic, lo sapeva. Lui non aveva mai avuto mal di mare sul serio, ma in quegli ultimi giorni ci arrivò molto vicino soltanto al pensiero della lunga traversata fino a Cherbourg.

Aveva annunciato a Bob Delancey che entro la settimana avrebbe traslocato, ma non gli aveva detto dove. D'altra parte Bob non sembrò per nulla curioso di saperlo. Si vedevano molto raramente in quel buco sulla Cinquantunesima. Tom era andato fino a casa di Marc Priminger sulla Quarantunesima Est a ritirare alcune cose che aveva dimenticato. Le chiavi le aveva ancora, così aveva pensato bene di andarci in un'ora in cui Marc non sarebbe stato in casa. Invece Marc era arrivato proprio sul più bello insieme a Joel, il suo nuovo inquilino, uno squallido ragazzotto che lavorava per una casa editrice. Marc aveva sfoderato una delle sue maschere più soavi tipo «Ti prego-fa-come-se-fossi-a-casa-tua» a beneficio di Joel. Tom sapeva, però, che se non ci fosse stato Joel, Marc l'avrebbe insultato con un linguaggio che avrebbe fatto impallidire persino uno scaricatore di porto. Marc (ma il suo vero nome era Marcellus) era un losco individuo che viveva di rendita e aveva l'hobby di correre in aiuto di ragazzi in difficoltà invitandoli a stare nella sua spaziosa casa a due piani, e giocava a fare il Padreterno dicendo loro cosa fare e cosa non fare in casa sua e dando loro consigli, per lo più di merda, sulla loro vita e sul loro lavoro. Tom era stato suo ospite per tre mesi, anche se quasi la metà di quel periodo Marc l'aveva trascorsa in Florida lasciandogli la casa tutta per sé. Al suo rientro, però, non gli aveva risparmiato una scenata disgustosa per un paio di bicchieri e di cristalli rotti. Quale occasione migliore per Marc per giocare ancora al Padreterno, nel suo delirio di onnipotenza! Quella volta, però, Tom si era seccato abbastanza per rispondergli a tono. Da quel momento Marc lo aveva buttato fuori, dopo avergli però spillato ben sessantatré dollari per i suoi dannati cristalli. Vecchio tirchio! Aveva tutte le caratteristiche della zitella inacidita che spadroneggia come direttrice di un collegio per signorine. Tom rimpiangeva amaramente il momento in cui aveva incontrato quel bastardo di Marc Priminger! Prima riusciva a dimenticare quegli occhi ottusi e porcini, quella mascella pesante e quelle tozze mani volgarmente inanellate che si agitavano qua e là dando ordini a destra e sinistra, e meglio sarebbe stato per lui.

Fra tutti i suoi amici l'unica a cui si sentì di parlare del suo viaggio in Europa fu Cleo: andò a trovarla il giovedì prima della partenza. Cleo Dobelle era alta, magra e scura di capelli. Aveva un'età indefinita fra i venti e i trent'anni, Tom non si era mai curato di saperlo. Cleo viveva con i genitori in Gracie Square e, nel suo piccolo, dipingeva. Proprio nel suo piccolo, non c'era aggettivo migliore, dato che Cleo dipingeva miniature su piccoli pezzi di avorio non più grandi di un francobollo, tanto che era costretta a usare una lente di ingrandimento. «Già, ma pensa come è comodo riuscire a far stare tutte, assolutamente tutte le mie opere in una scatola di sigari! Gli altri pittori devono avere un sacco di spazio, intere sale per tenerci i loro quadri!» replicava Cleo. La ragazza aveva un quartierino tutto suo, munito di bagno e cucina, sul retro dell'appartamento dei genitori. Le sue stanze, però, erano piuttosto buie dato che davano tutte su un minuscolo giardino interno semisoffocato da rigogliose piante di ailanto che bloccavano la luce. La ragazza teneva sempre le luci accese, luci fioche e diffuse, che conferivano ai locali un'atmosfera notturna qualunque fosse l'ora del giorno. Tranne la sera in cui l'aveva incontrata per la prima volta, Tom aveva sempre visto Cleo fasciata in attillati calzoni di velluto di tutte le tinte e in camicie di seta a righe dai vivaci colori. Si erano piaciuti fin dal primo momento e Cleo lo aveva invitato a cena a casa sua per la sera dopo. Era sempre Cleo a invitarlo nel suo appartamento e non li aveva mai sfiorati il pensiero che per una volta potesse essere Tom a invitarla a cena fuori, a teatro o a fare una qualunque delle cose che ci si aspetta che un uomo faccia quando corteggia una donna. Cleo non si era mai aspettata che Tom le portasse dei fiori, un libro o dei dolci quando veniva a cena o per l'aperitivo. Di tanto in tanto, però, Tom si ricordava di farle qualche regalino, ma solo perché le faceva piacere. Cleo era l'unica persona a cui poteva confessare di partire per l'Europa e per quale motivo. E lo fece.

Cleo, come Tom si aspettava, ne fu elettrizzata. Le labbra, rosse nel lungo e pallido viso, si schiusero mentre stringeva le mani sul morbido tessuto dei pantaloni ed esclamava: «Tommie! Ma è meraviglioso! Sembra un'avventura uscita da un'opera di Shakespeare, o roba simile!»

Era proprio quello che aveva pensato Tom. Ed era proprio ciò che aveva bisogno di sentirsi dire da qualcuno.

Cleo lo aveva subissato di premure per tutta la sera, facendogli le domande più assurde, chiedendogli se aveva preso abbastanza fazzoletti di carta, calze di lana e pastiglie per il raffreddore, perché in autunno in Europa cominciava la stagione delle piogge. E poi c'erano le vaccinazioni da fare! Tom la rassicurò e le disse di sentirsi perfettamente pronto per la partenza.

«Però non venirmi a salutare, Cleo. Non voglio che nessuno venga a salutarmi alla nave.»

«Certo che no!» ribatté Cleo, comprendendo perfettamente. «Oh, Tommie, è talmente eccitante! Devi scrivermi proprio tutto quello che ti succederà con Dickie! Sai, sei l'unica persona che io conosca che è andata in Europa per un vero motivo!»

Poi Tom le raccontò della visita al cantiere del signor Greenleaf a Long Island, dei chilometri e chilometri di banchi pieni di macchine utensili che fabbricavano scintillanti parti metalliche, che lucidavano e smaltavano il legno, i bacini di carenaggio con ossature di battelli di tutte le forme e tutte le dimensioni, e fece colpo su di lei ripetendole tutti i termini tecnici usati dal signor Greenleaf come, per esempio: mastra di boccaporto, carena, cresta e chiglia. Poi le descrisse la seconda cena dai Greenleaf, quando il signor Greenleaf aveva colto l'occasione per regalargli un orologio da polso. Mostrò l'orologio a Cleo. Certo non era un oggetto terribilmente costoso, però era sicuramente di ottima marca e proprio il genere che Tom si sarebbe scelto. Semplice e di buon gusto, con il quadrante chiaro, i numeri romani e la cassa e il cinturino d'oro.

«E solo perché mi è capitato di dirgli, alcuni giorni fa, che non avevo un orologio,» proseguì Tom. «Mi ha proprio adottato come un figlio.» Di nuovo Cleo era l'unica persona al mondo a cui potesse dire una cosa simile.

Cleo sospirò. «Mio Dio! Sei proprio fortunato. Una cosa simile non sarebbe mai successa a una donna. Gli uomini sono talmente più liberi!»

Tom sorrise. In verità a lui sembrava che fosse esattamente il contrario. «Questo odore di bruciato viene per caso dalle costolette?»

Cleo balzò in piedi con un gridolino costernato.

Dopo cena lei gli mostrò cinque o sei dei suoi lavori più recenti. Un paio di ritratti romantici di un ragazzo che conoscevano entrambi, con un'ampia camicia bianca dal colletto aperto, tre paesaggi fantastici di una zona dalla vegetazione intricata, simile alla giungla, ma ispirati in realtà agli alberi del giardinetto di casa. Il pelo delle piccole scimmie era tracciato con precisione straordinaria, dovette ammettere Tom. Cleo aveva un'intera gamma di pennelli composti da un singolo pelo che variavano dal tipo duro all'ultramorbido. Si scolarono quasi due bottiglie di Medoc, prese dalla cantina dei genitori di Cleo, e Tom fu colto da una tale sonnolenza che avrebbe potuto addormentarsi esattamente dove si trovava. Spesso avevano dormito per terra, vicini, sulle folte pelli d'orso davanti al caminetto. Un'altra delle attrattive di Cleo era che non si era mai aspettata che Tom le facesse la corte o degli approcci, e lui in effetti non l'aveva mai fatto. Quella sera, però, Tom fece uno sforzo e si rimise in piedi alle undici e tre quarti per andarsene.

«Non ti rivedrò più, vero?» chiese Cleo un po' avvilita sulla porta di casa.

«Oh, sarò di ritorno fra circa sei settimane,» rispose Tom sapendo bene che non sarebbe stato così. Poi, di scatto, si protese in avanti e le schioccò un bacio fraterno sulla liscia guancia pallida. «Mi mancherai, Cleo!»

Lei gli strinse con forza la spalla, primo e unico contatto fisico avanzato da parte della ragazza da quando si conoscevano. «E tu mancherai a me!»

Il giorno seguente fu tutto preso dalle piccole commissioni della signora Greenleaf da Brooks Brothers: dodici paia di calzini di lana neri e l'accappatoio. La signora Greenleaf non aveva dato indicazioni sul colore dell'accappatoio, preferiva che scegliesse lui, aveva dichiarato. Così Tom scelse una ciniglia color ruggine con i risvolti e la cintura blu scuro. Non era certo il capo migliore dell'assortimento, ma era quello che, secondo Tom, Richard avrebbe scelto per sé. Fece segnare i calzini e l'accappatoio sul conto dei Greenleaf, sempre aperto presso quel magazzino. Vide anche un camiciotto sportivo di cotone pesante che gli piacque molto. Sarebbe stato facile caricare anche quello sul conto dei Greenleaf. Ma non lo fece. Lo comprò con i suoi soldi.

 

5

 

Il mattino della sua partenza, il mattino che aveva atteso con tanta ansia e ottimismo, cominciò in modo orrendo. Tom aveva seguito l'inserviente fino alla sua cabina congratulandosi con se stesso per la risolutezza con la quale era riuscito a dissuadere Bob dall'accompagnarlo alla nave, ma non era ancora entrato nella stanza a lui destinata che un ululato agghiacciante lo bloccò dove si trovava.

«Ehi, Tom, dove hai messo lo champagne? Dai, non farci aspettare!»

«Amico, questa stanza è orribile! Perché non te la fai cambiare con una più decente?»

«Tommie, perché non mi porti con te?» chiese la ragazza di Ed Martin che Tom non poteva soffrire.

C'erano tutti! Tutti gli orribili amici di Bob, stravaccati ovunque, sul letto, per terra, dappertutto. Bob era riuscito a scoprire che l'amico stava partendo per l'Europa. Tom non avrebbe mai pensato che fosse capace di fare una cosa simile. Ci volle tutto l'autocontrollo di Tom per ribattere, in un tono di voce non eccessivamente gelido: «Niente champagne, ragazzi». Poi cercò di essere ospitale, di sorridere, ingoiandosi le lacrime come un bambino. Fulminò Bob con un'occhiata di rimprovero, ma l'amico era già ubriaco. In vita sua ben poche cose gli urtavano i nervi, cercò di giustificarsi Tom, ma questa era proprio una di quelle. Le sorprese chiassose e infantili, la marmaglia rozza, le persone volgari, gli sciattoni che credeva di essersi lasciato indietro definitivamente nel momento in cui aveva attraversato la passerella della nave! E invece se li ritrovava tutti lì, a insozzargli la lussuosa cabina nella quale avrebbe dovuto passare i prossimi cinque giorni.

Tom si diresse verso Paul Hubbard, l'unica persona decente del gruppo, e sedette accanto a lui sul divanetto incastrato alla parete. «Salve Paul,» gli disse calmo. «Mi dispiace per tutto questo.»

«Oh!» cercò di cambiar discorso Paul, «quanto tempo starai via, Tom? Ma che ti piglia adesso? Ti senti male?»

Fu terribile. La tortura continuò a lungo, fra schiamazzi e risate, mentre le ragazze provavano il letto e cacciavano il naso nello stanzino da bagno. Grazie al cielo i Greenleaf non erano venuti a salutarlo alla partenza! Il signor Greenleaf aveva dovuto recarsi a New Orleans per lavoro e la signora gli aveva detto, la mattina in cui Tom le aveva telefonato per salutarla, che non si sentiva bene e che non ce la faceva ad andare fino alla nave ad augurargli buon viaggio.

Infine, Bob o qualcun altro tirò fuori da chissà dove una bottiglia di whisky e tutti cominciarono a bere dagli unici due bicchieri del bagno; poco dopo arrivò un cameriere con un vassoio di bicchieri. Tom rifiutò di bere. Era fradicio di sudore e dovette togliersi la giacca per non macchiarla. Bob arrancò fino a lui e gli cacciò un bicchiere fra le mani. Bob non scherzava in quel momento, si rese conto Tom, e sapeva anche il perché. In fondo Tom aveva approfittato per oltre un mese dell'ospitalità di Bob e adesso questi pretendeva che, per lo meno in quel momento, l'amico gli mostrasse un viso cordiale e sorridente. Ma Tom non era in grado di accontentarlo, si sentiva come se i suoi lineamenti fossero stati intagliati nella pietra. E poi, cosa gliene importava se tutti finivano per detestarlo dopo quella deliziosa scenetta; cosa ci perdeva, in fondo?

«Posso cacciarmi qui dentro, Tommie!» annunciò la ragazza ben decisa a ficcarsi in un posto qualunque e a partire con lui. Difatti si era incastrata abilmente in un armadietto più o meno della misura di un ripostiglio per le scope.

«Mi piacerebbe proprio vedere Tom preso in trappola con una ragazza in camera da letto!» sottolineò Ed Martin con una risata.

Tom gli lanciò un'occhiata sprezzante. «Usciamo di qui e andiamo a respirare una boccata d'aria,» sussurrò poi a Paul.

Gli altri stavano facendo una tale cagnara che nessuno si accorse della loro partenza.

Si appoggiarono al parapetto a poppa. Era una giornata grigia e senza sole, la città alla loro destra sembrava già lontana e indefinita, come una terra sconosciuta vista in lontananza dal mare; se non fosse stato per quel branco di bastardi nella sua bella cabina!

«Dove ti sei cacciato in questi giorni?» chiese Paul. «Se non c'era Ed a telefonarmi per darmi la notizia della tua partenza, non avrei neppure saputo che te ne andavi. Sono settimane che non ti fai vedere in giro.»

Paul era uno di quelli che credevano che Tom lavorasse per la Associated Press. Tom inventò una storia convincente circa un incarico che gli era stato affidato. Forse addirittura in Medio Oriente, gli confidò, in tono cospiratorio. «Ho dovuto lavorare un sacco anche di notte, negli ultimi tempi,» continuò poi, «ed è per questo che non mi sono fatto vedere in giro. È stato molto gentile da parte tua venirmi a salutare.»

«Stamattina non avevo lezione.» Paul si levò la pipa di bocca e sorrise. «Ma sarei venuto comunque, però. Sai, ogni scusa è buona.»

Tom gli ricambiò il sorriso. Paul insegnava musica in una scuola femminile per guadagnarsi da vivere, però la sua vera passione era comporre musica nel tempo libero. Tom non riusciva a ricordare in che occasione aveva incontrato Paul. Ricordava bene, però, di essere stato a casa sua sul Riverside Drive una domenica a colazione con un gruppo di altri amici; in quell'occasione Paul aveva suonato al pianoforte alcune delle sue composizioni e a Tom era piaciuto moltissimo. «Posso offrirti da bere? Vediamo un po' da che parte si trova il bar,» lo invitò quindi.

Ma proprio in quel momento un inserviente attraversò il ponte, suonando un gong e urlando: «Visitatori a terra! I signori visitatori sono pregati di lasciare la nave!»

«È per me,» esclamò Paul.

Si strinsero la mano calorosamente promettendosi di mandarsi una cartolina. L'attimo dopo Paul non c'era più.

La banda di Bob si sarebbe fermata fino all'ultimo momento, non c'erano dubbi; anzi era probabile che si facesse sbattere fuori a pedate. Di scatto Tom si girò e corse su per una ripida scaletta. Giunto in cima si trovò la strada sbarrata da una catena con un cartello: CLASSE TURISTICA. Risolutamente scavalcò l'ostacolo ed entrò sul ponte. Di sicuro nessuno avrebbe avuto nulla da obiettare se un passeggero di prima classe faceva un giro in classe turistica, pensò. Non sopportava l'idea di rivedere quella masnada di chiassoni. Aveva pagato a Bob due settimane di affitto e gli aveva persino regalato, come dono di addio, una bella camicia con cravatta in tinta. Cos'altro voleva da lui, adesso?

La nave aveva ormai mollato gli ormeggi prima che Tom osasse tornare nella sua cabina. Cautamente entrò nella stanza. Era vuota. Il lindo copriletto azzurro era stato rimesso a posto. I portacenere erano stati svuotati. Dell'orrenda invasione non restava nessuna traccia. Tom si rilassò e sorrise. Questo sì che era un servizio efficiente! All'altezza delle antiche tradizioni della marina britannica, della Cunard Line, e così via! Sul pavimento, accanto al letto, scorse un gran cesto di frutta. Prese subito la piccola busta bianca che l'accompagnava. Il biglietto diceva:

 

Bon voyage e che Dio la benedica, caro Tom. La accompagniamo con i nostri più sentiti auguri.

Emily e Herbert Greenleaf

 

Il cesto era munito di un lungo manico ed era completamente avvolto in un foglio di cellophane giallo. All'interno si intravedevano mele, pere, un grappolo d'uva, dolci assortiti e alcune bottigliette di liquore. Tom non aveva mai ricevuto, in vita sua, un cestino augurale. Per lui era sempre stato un oggetto che si vede nelle vetrine dei negozi eleganti del centro a prezzi talmente alti da riderci su. Adesso, all'improvviso, si ritrovò con gli occhi pieni di lacrime. Senza parlare affondò il viso fra le mani e scoppiò in singhiozzi.

 

6

 

Era di umore sereno e ben disposto, ma niente affatto socievole. Aveva voglia di riflettere, e non gli importava di fare amicizia con nessuno dei passeggeri della nave; però, quando incontrò gli altri commensali al suo tavolo li salutò con modi cordiali e sorrise. Ben presto si trovò ad avere un ruolo preciso, quello del giovane serio e posato con un compito serio da svolgere. Si mostrò cortese, posato, civile e assorto nei suoi pensieri.

Gli venne il capriccio improvviso di avere un berretto e ne acquistò uno allo spaccio, un bel berretto tradizionale di morbida lana inglese grigio-azzurra. Quando voleva fare un pisolino sulla sedia a sdraio sul ponte oppure quando voleva dare a intendere che stava dormendo, non aveva che da tirar giù la visiera e coprirsi metà del viso. Il berretto era il copricapo più versatile, pensò Tom, chiedendosi perché mai non ne avesse fatto uso prima. Con un berretto in testa poteva sembrare un gentiluomo di campagna, un ladro, un distinto signore inglese, un francese oppure semplicemente un americano un po' eccentrico, tutto dipendeva dal modo di portarlo. Tom si divertì a lungo davanti allo specchio della cabina a provare tutte le fogge possibili. Aveva sempre pensato che il suo viso fosse il più insignificante del mondo. Uno di quei visi che si dimenticano subito dopo averli visti, con un'espressione di strana mansuetudine che lui stesso non capiva e di vago timore che non era mai stato in grado di eliminare. Un viso da conformista fino al midollo delle ossa, pensava. Il berretto lo modificò radicalmente. Gli diede un'aria di campagna, tipo Greenwich o Connecticut. Si era trasformato, come per incanto, in un giovane dal futuro roseo, uscito da poco da Princeton. Subito si comperò una pipa in armonia col berretto.

Stava per cominciare una nuova vita. Addio a tutta quella plebaglia di second'ordine che aveva frequentato o che aveva lasciato ruotare intorno a lui negli ultimi tre anni a New York. Si sentì come pensava dovessero sentirsi gli emigranti in procinto di partire per l'America, quando si lasciano alle spalle un intero mondo, un paese, gli amici, i parenti e tutti i loro errori. Tabula rasa! Qualunque cosa succedesse con Dickie, se la sarebbe cavata con onore, e il signor Greenleaf avrebbe dovuto ammettere che ce l'aveva messa tutta e lo avrebbe rispettato per questo. Una volta terminato il denaro del signor Greenleaf avrebbe anche potuto fare a meno di rientrare in America. Avrebbe potuto trovarsi un lavoro interessante, in un albergo per esempio, in un posto cioè dove avessero bisogno di qualcuno intelligente e di bella presenza che sapesse l'inglese. Oppure avrebbe preso la rappresentanza di qualche ditta europea e avrebbe viaggiato per il mondo. Non era neppure da escludere che spuntasse all'orizzonte qualcuno che avesse bisogno proprio di un giovane come lui, che sapesse guidare la macchina, che avesse dimestichezza con le cifre e i conti, che ci sapesse fare con una vecchia nonna o che potesse scortare la giovane figlia di qualche riccone a un ballo. Era versatile, e il mondo era così grande! Giurò a se stesso che se avesse trovato un lavoro avrebbe fatto in modo di tenerlo. Pazienza e perseveranza! Avanti a testa alta!

«Avete per caso Gli ambasciatori di Henry James?» chiese Tom all'incaricato della biblioteca di prima classe. Il libro mancava dallo scaffale.

«Spiacente, signore, ma non lo abbiamo,» rispose questi.

Tom ne fu deluso. Era il libro di cui Greenleaf gli aveva parlato alcune sere prima; adesso si sentiva in dovere di leggerlo. Scese nella biblioteca della classe turistica e trovò il libro al suo posto nello scaffale. Quando andò al banco per registrarlo e diede il suo numero di cabina l'impiegato gli disse che era desolato ma che i passeggeri di prima classe non potevano prelevare volumi dalla biblioteca della classe turistica. Era ciò che Tom temeva. Ripose il libro al suo posto senza discutere pensando a quanto sarebbe stato facile, troppo facile uscirsene alla chetichella nascondendo il libro sotto la giacca.

La mattina passeggiava pigramente sul ponte. Faceva parecchi giri ma molto lentamente tanto che gli igienisti che facevano il footing sbuffando lo superavano almeno due o tre volte prima che lui avesse avuto il tempo di fare un giro completo. Poi sedeva sulla sua sdraio per sorbirsi un buon brodo caldo e meditare ulteriormente sul suo destino. Dopo pranzo si crogiolava a lungo in cabina, godendosi il lusso, l'intimità e l'ozio. A volte sedeva nella sala di scrittura e scriveva una lettera dopo l'altra sulla carta intestata del battello a Marc Priminger, a Cleo e ai Greenleaf. La lettera ai Greenleaf cominciava con una cortese formula di apertura, un caldo ringraziamento per il cestino augurale e per l'ottima sistemazione a bordo. Subito dopo, però, si perdeva in fantasticherie e si figurava di aggiungere un paragrafo nel quale raccontava di aver incontrato Dickie, della loro vita insieme nella casa di Mongibello e dei progressi, lenti ma sicuri, che stava compiendo per persuadere Dickie a tornare a casa. Si dilungava poi nella narrazione delle lunghe nuotate, della pesca, della vita mediterranea nelle stradine e nei caffè affollati; si lasciava trasportare dalla narrazione al punto di scrivere otto o dieci pagine intere ben sapendo che non ne avrebbe imbucato neppure una. Arrivò a raccontare che Dickie non era affatto coinvolto sentimentalmente da Marge (di cui dava una completa descrizione in chiave psicoanalitica) per cui la causa del rinvio delia partenza non era imputabile alla ragazza, contrariamente a quanto pensava la signora Greenleaf ecc. ecc, finché la tavola non era totalmente sommersa dai fogli scritti e non suonava la prima campana per la cena.

Un altro pomeriggio scrisse un cortese biglietto a zia Dottie:

 

Zietta cara (appellativo usato raramente per lettera e, di sicuro, mai di persona),

come puoi vedere dall'intestazione della carta, mi trovo in mezzo all'oceano, per una inaspettata offerta di lavoro di cui sarebbe troppo lungo parlare adesso. Poiché sono dovuto partire in gran fretta non mi è stato possibile venire a Boston a salutarti e ne sono molto spiacente dato che potrebbero passare alcuni mesi, anni persino, prima che io sia di ritorno.

Non preoccuparti per me e non mandarmi più assegni, grazie. Grazie per l'ultimo di un mese fa. Immagino che tu non ne abbia mandati altri. Sto bene e sono contentissimo.

Affettuosamente,

Tom

 

Inutile farle gli auguri per la sua salute. Era più robusta di un cavallo. Poi in fondo, aggiunse:

 

P.S. Non ho la minima idea di dove andrò a stare, per cui non posso darti il mio indirizzo.

 

Il postscriptum lo fece sentire meglio perché rappresentava un taglio definitivo da lei. Non aveva neppure bisogno di dirle dove si trovava. Aveva chiuso con le sue lettere sprezzanti e ficcanaso, con i suoi paragoni subdoli fra lui e suo padre, con quei meschini assegni dalle strane cifre tipo sei dollari e quarantotto centesimi oppure dodici dollari e novantacinque, come se si degnasse di mandargli i resti del conto della spesa, come fossero briciole. Se pensava a quello che zia Dottie avrebbe potuto mandargli, vista la sua rendita, quei soldi erano una specie di insulto. Zia Dottie sosteneva che la sua educazione le era costata molto più di quanto le aveva fruttato l'assicurazione di suo padre. Forse era vero, ma era proprio necessario rinfacciarglielo a quel modo ogni cinque minuti? Quale essere umano, degno di questo nome, avrebbe rinfacciato una cosa simile a un ragazzino, ogni momento? Un sacco di zie, e di estranei persino, allevavano un bambino per nulla ed erano anche felici di farlo.

Dopo aver terminato la lettera a zia Dottie, Tom si alzò e passeggiò a lungo sul ponte, cercando di calmarsi. Il solo fatto di scriverle lo rendeva furibondo. Non gli andava il fatto di dover essere gentile con lei. Eppure, fino a quel momento, aveva sempre dovuto tenerla informata dei suoi spostamenti dato che non aveva mai potuto fare a meno dei suoi miserabili assegni. Aveva dovuto scrivere montagne di lettere per comunicarle i suoi cambiamenti di indirizzo. Adesso, però, i suoi soldi non gli servivano più. Finalmente si era liberato da quella schiavitù. Per sempre.

Improvvisamente gli tornò alla mente il ricordo di un'estate, quando aveva appena dodici anni, e aveva fatto un lungo viaggio con zia Dottie e un'amica di lei. A un certo punto erano rimasti imbottigliati in un terribile ingorgo stradale. Era molto caldo, quel giorno, e zia Dottie lo aveva mandato a prendere dell'acqua fresca con un termos a una stazione di servizio. Proprio in quel momento il traffico aveva ripreso a scorrere. Tom ricordò la sua corsa affannosa fra enormi macchine ostili, sempre sul punto di toccare lo sportello della macchina di zia Dottie senza riuscirci, mentre lei andava più in fretta che poteva, senza degnarsi di aspettarlo un attimo e urlandogli: «Forza, forza, lumacone!» Quando, finalmente, era riuscito a raggiungere la macchina e si era cacciato dentro con gli occhi colmi di lacrime di rabbia e frustrazione, zia Dottie aveva commentato allegramente all'amica: «Femminuccia, è una femminuccia bella e buona, proprio come suo padre!» C'era da stupirsi che fosse uscito così bene da un simile trattamento. E poi, si chiese, perché mai zia Dottie si era messa in testa che suo padre fosse una femminuccia? Aveva mai dimostrato coi fatti questa affermazione? No davvero!

Comodamente allungato sulla sua sdraio, rafforzato moralmente dal lusso che lo circondava e fisicamente dall'ottimo cibo servito a bordo, cercò di guardare con obiettività al suo passato. Gli ultimi quattro anni erano stati, per lo più, veramente sprecati. Inutile negarlo. Una lunga serie di lavori saltuari, alternati a lunghi periodi di disoccupazione e conseguente demoralizzazione per mancanza di soldi. E poi quel mescolarsi con gente rozza e sciocca pur di evitare la solitudine oppure perché aveva qualcosa da offrirgli, almeno per un po', proprio come nel caso di Marc Priminger. Non c'era proprio di che essere fieri, soprattutto se pensava con che bagaglio di sogni e di progetti era arrivato a New York. Aveva sempre desiderato fare l'attore, per quanto, a vent'anni, non avesse la minima idea delle difficoltà, della scuola e dello studio necessari e tanto meno del talento. Per la verità era sempre stato convinto di avere talento da vendere e pensava che bastasse andarsi a presentare da un produttore qualunque ed esibirsi in una delle sue parodie, tipo quella di Roosevelt che scrive Il mio diario dopo una visita a un ospizio per ragazze madri, per esempio. Erano bastati i primi tre rifiuti a uccidere definitivamente le sue speranze e il suo coraggio. Non aveva da parte neppure un soldo, e aveva dovuto accettare il lavoro sulla bananiera, cosa che per lo meno aveva avuto il pregio di tirarlo fuori per un po' dalla città. A quel tempo temeva che zia Dottie si fosse rivolta alla polizia per farlo cercare a New York, anche se a Boston non aveva fatto nulla di male, se non scappare di casa per costruirsi la vita a modo suo, proprio come avevano fatto milioni di giovani prima di lui.

Il suo errore principale stava nel fatto che non era mai riuscito a restare ancorato abbastanza a lungo a nessuna cosa. Per esempio, quel lavoro nel grande magazzino avrebbe potuto portare a qualcosa di interessante, se solo non si fosse scoraggiato di fronte alla lentezza con cui avvenivano gli scatti di carriera. Entro certi limiti era riuscito ad attribuire a zia Dottie questa sua mancanza di perseveranza; la donna, infatti, non gli aveva rivolto una parola di lode o di incoraggiamento per le cose a cui si era dedicato. Come quel suo manualetto di indicazioni stradali, per esempio. Aveva vinto persino una medaglia d'argento del giornale locale per «Cortesia, buona volontà e senso di responsabilità». Ebbe l'impressione di guardare un perfetto estraneo, mentre ripensava a come era allora: un ragazzetto ossuto e piagnucoloso, sempre col moccio al naso, che però era riuscito a conquistarsi, malgrado tutto, una medaglia per la sua cortesia, buona volontà e senso di responsabilità. Zia Dottie lo odiava quando aveva il raffreddore, tirava fuori il suo fazzolettone e quasi gli strappava via il naso per asciugargli il moccio.

Al pensiero Tom sussultò nella comoda sedia a sdraio; ma sussultò con eleganza, fingendo di lisciarsi la piega dei pantaloni.

Ripensò a tutti i giuramenti fatti, fin dalla tenera età di otto anni, di fuggire il più lontano possibile da zia Dottie figurandosi, con dovizia di particolari, le scenate truculente che sarebbero successe, tipo zia Dottie che cercava di trattenerlo in casa con la forza mentre lui la colpiva con i pugni facendola finire a terra e calpestandola crudelmente, per poi strapparle con rabbia la grossa spilla che portava sempre appuntata al vestito e colpirla con questa mille e mille volte alla gola. A diciassette anni era scappato la prima volta ma era stato ripreso e riportato indietro. A venti ci aveva riprovato, e questa volta c'era riuscito. Era incredibile, e anche un po' penoso, rendersi conto di quanto era stato ingenuo e di quanto poco sapesse delle cose del mondo. Era come se avesse sprecato così tanto tempo a odiare zia Dottie e a delirare sul modo di sfuggirle dalle grinfie che non gli era rimasto il tempo per imparare a vivere e per crescere. Ricordò di come si era sentito quando era stato licenziato in tronco dal suo primo lavoro ai mercati generali durante il primo mese di vita a New York. Era riuscito a tener duro con quel lavoro per meno di due settimane dato che non aveva forza sufficiente per sollevare cassette di frutta per otto ore di seguito tutti i giorni. Eppure aveva fatto del suo meglio, sfiancandosi per non farsi buttare fuori. Poi, quando il peggio era avvenuto, ricordò il senso di delusione e ingiustizia profonda provato. Ricordò che in quel momento aveva deciso che il mondo era pieno di bestioni come Simon Legrees, il padrone, e che per riuscire a viverci bisognava diventare bestie da soma, dure e insensibili come quegli altri gorilla che lavoravano insieme a lui ai mercati. Altrimenti c'era la fame. Ricordò che subito dopo il fatto aveva rubato uno sfilatino di pane da una rosticceria e se l'era portato di corsa a casa per divorarlo, sentendo che in fondo il mondo gli doveva ben altro che un semplice sfilatino.

«Signor Ripley?» Una delle signore inglesi che il giorno prima sedeva accanto a lui sul divano nella sala da tè, si protendeva sopra di lui. «Ci chiedevamo se le farebbe piacere unirsi a noi per una mano di bridge, giù in sala giochi. Cominciamo fra un quarto d'ora circa.»

Tom si rizzò educatamente sulla sedia. «Grazie mille, signora, ma credo proprio che resterò qui fuori. Inoltre il bridge non è proprio il mio forte.»

«Oh, se è per questo nessuno di noi è un campione! Sarà per un'altra volta, comunque.» Sorrise e lo lasciò solo.

Tom si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia, tirò il berretto sugli occhi e allacciò le mani sul petto. Il suo riserbo, ne era certo, stava causando mille commenti fra i passeggeri. Non aveva ballato neppure una volta con nessuna delle due ragazzette idiote che continuavano a lanciargli occhiate e risatine invitanti durante il ballo dopo cena. Si figurò le illazioni dei passeggeri: «Sì, è americano. Credo proprio di sì, di sicuro però non si comporta come un americano, non ti pare? Gli americani sono tutti così chiassoni. È terribilmente posato, vero? Eppure non può avere più di ventitré anni. Deve avere in testa qualcosa di molto grave.»

Già, proprio così. Aveva in testa il presente e il futuro di Tom Ripley.

 

7

 

Parigi fu poco più che una visione colta di sfuggita dalla vetrata del caffè della stazione ferroviaria, risplendente di luci e corredata, come ogni cartolina illustrata che si rispetti, di tendone rigato dalla pioggia, di tavolini sulla terrazza delimitata da vasi di sempreverdi ben tenuti. Poi fu una lunga serie di banchine ferroviarie e di binari lungo i quali seguì piccoli facchini tozzi vestiti con la divisa blu e curvi sotto il peso del suo bagaglio, fino al vagone letto che lo avrebbe portato a Roma. Sarebbe tornato a Parigi un'altra volta, pensò. Adesso era ansioso di arrivare a Mongibello.

Quando aprì gli occhi, il mattino seguente, era in Italia. Nella mattinata successe una cosa molto piacevole. Tom stava ammirando il paesaggio che scorreva fuori del finestrino, quando sentì alcuni italiani, nel corridoio vicino al suo scompartimento, dire qualcosa in cui distinse il nome Pisa. Dall'altra parte del treno una città scivolava silenziosamente. Tom uscì nel corridoio per vederla meglio, alla ricerca quasi meccanica della Torre pendente, per quanto non fosse affatto sicuro che la città che attraversavano fosse Pisa o che la Torre fosse visibile da lì. E invece eccola! Una massiccia colonna bianca che svettava sui tetti delle case basse e tozze che formavano il resto della città. Era lì e «pendeva», pendeva con un'angolazione che avrebbe ritenuto impossibile se non l'avesse vista con i suoi occhi! Aveva sempre pensato che la pendenza della Torre di Pisa fosse un'esagerazione. Prese la cosa come un buon auspicio, come un segno che l'Italia sarebbe stata per lui all'altezza delle aspettative e che tutto sarebbe andato a meraviglia fra lui e Dickie.

Arrivò a Napoli a pomeriggio inoltrato e non c'erano corriere per Mongibello fino alle undici del mattino seguente. Un ragazzotto di circa sedici anni, con una camicia e un paio di pantaloni sporchi e scarponcini militari americani, gli si incollò alle costole alla stazione ferroviaria, mentre stava cambiando dei soldi, e continuò a offrirgli Dio sa cosa, ragazze forse, oppure droga, e malgrado le proteste di Tom si infilò nel taxi con lui e disse al tassista che direzione prendere, senza smettere un solo istante di blaterare e facendogli segno col dito alzato che lo stava servendo a dovere e che si sarebbe trovato contento. Alla fine Tom rinunciò a protestare e si ritirò in un angolo incrociando le braccia. Infine il taxi si arrestò di fronte a un grande albergo che dava sul golfo. Se non fosse stato per il signor Greenleaf che pagava il conto, Tom si sarebbe spaventato alla vista di tutto quel lusso.

«Santa Lucia,» proruppe il ragazzo in tono trionfante mostrandogli il mare.

Tom fece un cenno di assenso. Dopo tutto sembrava che il ragazzo fosse animato da buone intenzioni. Pagò il taxi e diede al ragazzo un biglietto da cento lire, che, calcolò rapidamente, corrispondevano a circa sedici centesimi e rotti: secondo un articolo sull'Italia che aveva letto sulla nave, avrebbero dovuto costituire una mancia adeguata. Quando il ragazzo fece un'aria oltraggiata Tom gli diede altre cento lire e poi, dato che l'aria oltraggiata non accennava a scomparire, gli fece un cenno di saluto con la mano e si avviò verso l'albergo dietro il facchino che già aveva scaricato il suo bagaglio.

Quella sera Tom cenò in un ristorante in riva al mare chiamato Zi' Teresa che gli era stato caldamente raccomandato, in un inglese fluente, dal direttore dell'albergo. Incontrò alcune difficoltà nelle ordinazioni. In effetti si ritrovò a fronteggiare, come primo piatto, una porzione di polipi minuscoli di un color viola talmente carico che sembrava fossero stati cotti nell'inchiostro con il quale era stato scritto il menù. Prudentemente assaggiò la punta di un tentacolo e constatò che aveva una consistenza disgustosa, gelatinosa come una cartilagine. Anche la seconda ordinazione fu un errore, un vassoio colmo di frittura di pesce di tutti i tipi. Il terzo piatto, che secondo lui avrebbe dovuto essere una specie di dolce, si rivelò invece un paio di piccoli pesci arrosto di colore rossiccio. Oh Napoli! Ma il cibo non contava, si sentiva di buon umore e un po' brillo per il vino. Verso sinistra, in lontananza la luna quasi piena galleggiava sulla mole frastagliata del Vesuvio. Tom l'ammirò con tutta calma, come se l'avesse vista almeno mille volte prima di quella sera. Dietro la massa scura, ai piedi del Vesuvio, c'era il paese di Richard.

Alle undici in punto, il mattino dopo, era sull'autobus. La strada seguiva la linea della costa e attraversava paesini e villaggi nei quali si fermavano brevemente: Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare, Sorrento. Tom ascoltava avidamente i nomi dei paesi che l'autista annunciava ad alta voce. Da Sorrento in poi la strada si trasformò in una specie di cunicolo tagliato nella roccia viva e Tom la riconobbe per averla vista in una delle fotografie dei Greenleaf. Di tanto in tanto coglieva una rapida visione di paesini acquattati in riva al mare, con casette simili a briciole di pane e puntolini scuri sull'acqua che altro non erano se non bagnanti che nuotavano in prossimità della riva. Tom scorse un masso di proporzioni considerevoli proprio in mezzo alla strada, che doveva essersi staccato evidentemente dalla parete rocciosa sovrastante. L'autista lo evitò abilmente con una sterzata noncurante.

«Mongibello!»

Tom saltò in piedi e tirò giù con foga la valigia dalla reticella. Sul tetto della corriera ne aveva un'altra e pensò l'autista a tirargliela giù. Poi la corriera ripartì e Tom si ritrovò solo sul ciglio della strada con le valigie davanti ai piedi. Più in alto, proprio sopra di lui, c'erano alcune case abbarbicate sul fianco della montagna, e sotto di lui ce n'erano altre con i tetti rossi ricoperti di tegole che si stagliavano contro l'azzurro del mare. Senza perdere di vista le valigie Tom entrò in una casa dall'altra parte della strada con l'insegna POSTA e chiese all'uomo allo sportello dove si trovava la casa di Richard Greenleaf. Aveva parlato in inglese, senza riflettere, ma l'uomo aveva l'aria di aver capito dato che fece il giro del bancone e, dalla soglia, indicò la strada dalla quale Tom era arrivato con la corriera dandogli, in italiano, indicazioni su come arrivarci.

«Sinistra, sempre a siiiniistra!»

Tom lo ringraziò e chiese se poteva lasciare lì le valigie per un po'. L'uomo capì anche questo, anzi aiutò persino Tom a portarle all'interno dell'ufficio postale.

Dovette chiedere ancora a due persone indicazioni per la casa di Richard; sembrava, però, che tutti sapessero dove si trovava e la terza persona a cui si rivolse fu persino in grado di indicargliela. Era una casa grande a due piani, con un cancello in ferro che dava sulla strada e una terrazza protesa sulla scogliera rocciosa. Tom suonò la campanella accanto al cancello. Una donna, evidentemente italiana, uscì dalla casa asciugandosi le mani nel grembiule.

«Il signor Greenleaf?» chiese Tom con aria speranzosa.

La donna lo gratificò di una lunga e sorridente replica in italiano, indicandogli con la mano il mare sotto di loro. «Giù,» continuava a dire enfaticamente, «giù!»

Tom annuì con calore e ringraziò, per quanto non riuscisse a capire con chi ce l'avesse la donna, con il suo reiterato «giù».

Doveva andare giù alla spiaggia come si trovava, oppure doveva essere un po' più disinvolto e infilarsi il costume da bagno? O forse era meglio che aspettasse l'ora del tè o dell'aperitivo? Magari doveva annunciarsi con una telefonata? Non aveva portato con sé il costume da bagno, eppure lì non se ne poteva certamente fare a meno. Tom entrò in uno dei negozietti vicino all'ufficio postale, un bugigattolo che esibiva camiciotti e costumi da bagno nella minuscola vetrina e, dopo essersi provato molti tipi di calzoncini che non gli andavano bene, o non abbastanza per poterci anche nuotare, comprò una cosina gialla e nera di dimensioni microscopiche. Piegò accuratamente gli abiti che indossava, insieme all'impermeabile e si avviò verso l'uscita a piedi nudi. Non aveva fatto due passi che fece un balzo indietro. I ciottoli della strada scottavano come carboni ardenti.

«Scarpe? Sandali?» chiese in inglese al commesso del negozietto, aiutandosi con la mimica.

Ma questi non vendeva né scarpe né sandali.

Tom infilò di nuovo le scarpe che portava al suo arrivo e si diresse verso l'ufficio postale con l'intenzione di lasciare il fagotto dei vestiti insieme alle valigie; adesso, però, l'ufficio postale era chiuso. Aveva sentito parlare di questa usanza europea di chiudere negozi e uffici da mezzogiorno alle quattro circa. Fece dietro front e si incamminò giù per una stradina sassosa che, a suo parere, andava verso la spiaggia. Scese una dozzina di scalini di pietra, percorse un altro viottolo acciottolato, scese altri interminabili scalini e finalmente si ritrovò all'altezza di una larga banchina, lievemente rialzata rispetto alla spiaggia, sulla quale si trovavano un paio di bar e un ristorante con i tavolini all'aperto. Alcuni ragazzini italiani dal colorito bronzeo, seduti con aria oziosa sulle panchine di legno ai bordi della banchina, lo squadrarono da capo a piedi mentre l'attraversava. Si sentì imbarazzato per le grosse scarpe scure e pesanti che calzava e per la sua pelle bianco latte. Non era mai stato al mare, neppure una volta, in tutta l'estate. Odiava il mare. Una passerella di legno attraversava la spiaggia quasi in tutta la lunghezza. La sabbia, Tom lo capì dal fatto che tutti stavano sdraiati su una salvietta o su qualche altro riparo, doveva essere bollente come la pece. Senza curarsene tolse ugualmente le scarpe e cercò di restare calmo e impassibile sulle assi di legno rovente, scrutando i gruppi di bagnanti. Nessuno somigliava a Richard. Ondate di calore tremolante gli impedivano di distinguere con chiarezza i gruppi di persone più distanti. Tom mise un piede sulla sabbia ma lo ritirò immediatamente. Poi, tirando un profondo respiro, si precipitò per tutta la lunghezza della passerella, schizzò come una molla oltre la distesa sabbiosa e affondò i piedi nella frescura deliziosa dell'acqua. Poi cominciò a camminare.

Lo riconobbe fin da lontano. Era Dickie, non c'erano dubbi, per quanto fosse abbronzato come un tizzone e i ricci capelli biondi fossero molto più chiari di quanto Tom ricordasse. Era con Marge.

«Dickie Greenleaf?» chiese Tom con un sorriso.

Dickie alzò la testa. «Sì?»

«Sono Tom Ripley. Ci siamo incontrati negli Stati Uniti alcuni anni fa. Ricordi?»

Dickie gli lanciò un'occhiata vacua e indifferente.

«Credo che tuo padre ti abbia scritto di me.»

«Ah, certo!» esclamò Dickie toccandosi la fronte come se non potesse capacitarsi di essersene dimenticato. Si alzò in piedi. «Tom, che cosa?»

«Tom Ripley.»

«Ti presento Marge Sherwood. Marge, questo è Tom Ripley.»

«Piacere,» esclamò Tom.

«Piacere.»

«Quanto pensi di fermarti?» chiese Dickie.

«Non saprei, ancora. Sono appena arrivato. Vorrei prima dare un'occhiata in giro.»

Dickie lo stava osservando, e non benevolmente, intuì Tom. Teneva le braccia incrociate e i suoi lunghi piedi abbronzati affondavano nella sabbia rovente come se non gli desse nessun fastidio. Tom aveva dovuto infilarsi di nuovo le grosse scarpe marrone.

«Hai intenzione di prendere una casa?» chiese ancora Dickie.

«Non ci ho ancora pensato,» rispose Tom con aria dubbiosa, come se il pensiero non lo avesse ancora sfiorato.

«Questo è il momento giusto per prendere una casa, se ti interessa tenerla per tutto l'inverno,» si intromise la ragazza. «Ormai i turisti estivi se ne sono andati quasi tutti. Nei dintorni c'è posto per un sacco di americani, per l'inverno, ormai.»

Dickie non fece commenti. Si era accomodato di nuovo sulla salviettona di spugna della ragazza e Tom ebbe l'impressione che stesse solo aspettando che lui salutasse e se ne andasse. Tom rimase immobile, sentendosi pallido e nudo come il giorno in cui era venuto al mondo. Odiava i costumi da bagno. Questo, poi, era così impudico. Riuscì a estrarre il pacchetto delle sigarette dalla tasca interna dell'impermeabile e ne offrì a Dickie e alla ragazza. Dickie ne prese una e Tom gliela accese con il suo accendino.

«Ho l'impressione che tu non ti ricordi di me, vero?» chiese Tom.

«In effetti ho dei dubbi. Dov'è che ci siamo incontrati?»

«Mi pare... già, non è stato da Buddy Lankenau, per caso?» Non era vero, ma Tom sapeva che Dickie conosceva Buddy Lankenau, e Buddy era una persona molto rispettabile.

«Oh,» replicò Dickie in tono vago. «Spero che mi scuserai. La mia memoria è terribile di questi tempi, soprattutto per tutto ciò che concerne l'America.»

«Davvero, sai,» intervenne Marge correndo in aiuto di Tom. «E peggiora di giorno in giorno. Quando sei arrivato, Tom?»

«Circa un'ora fa. Mi sono limitato a depositare i bagagli all'ufficio postale,» rise.

«Perché non ti siedi un po'? C'è un'altra salvietta, se vuoi.» E stese una salvietta bianca, più piccola dell'altra, accanto alla sua.

Tom accettò con gratitudine.

«Io vado a fare un tuffo per rinfrescarmi un po',» annunciò Dickie alzandosi.

«Vengo anch'io!» esclamò Marge. «Vieni anche tu, Tom?»

Tom li seguì. Dickie e la ragazza andarono piuttosto al largo - erano evidentemente ottimi nuotatori entrambi - e Tom rimase verso riva e rientrò molto prima di loro. Quando Dickie e la ragazza tornarono al loro posto, Dickie disse, come se fosse stato istruito dalla ragazza: «Noi andiamo, adesso. Ti va di venire su in casa mia e mangiare con noi?»

«E perché no? Grazie mille.» Li aiutò a raccogliere gli asciugamani, gli occhiali da sole e i giornali italiani.

Tom ebbe l'impressione che non sarebbero arrivati mai fin lassù. Dickie e Marge lo precedevano, prendendo con lentezza e con ritmo inesorabile l'interminabile fila di gradini di pietra, a due a due. Il sole lo aveva snervato. I muscoli delle gambe gli tremavano visibilmente, la schiena e le spalle erano già di un color rosa vivo malgrado si fosse rimesso la camicia per difendersi dalla violenza del sole che gli picchiava sulla testa, attraverso i capelli, facendogli venir voglia di vomitare.

«Te la passi male, vero?» chiese Marge per nulla affaticata. «Ti ci abituerai, se decidi di fermarti qui. Avresti dovuto vedere questo posto durante l'ondata di caldo in pieno luglio.»

Tom non trovò il fiato per replicare.

Un quarto d'ora più tardi stava meglio. Aveva fatto una doccia fredda e sedeva in una comoda poltrona di paglia intrecciata sulla terrazza di Dickie con in mano un bicchiere di martini. Dietro suggerimento di Marge si era rimesso il costume da bagno e il camiciotto. Mentre era sotto la doccia, la tavola sulla terrazza era stata apparecchiata per tre e Marge era andata in cucina dove, adesso, stava parlando in italiano con la cameriera. Tom si chiese se Marge vivesse lì. La casa era sicuramente grande abbastanza. Era scarsamente ammobiliata, da quello che Tom aveva potuto vedere, con una gradevole confusione di mobili italiani vecchio stile e bohémien americano. Nell'ingresso aveva riconosciuto due disegni originali di Picasso.

Marge uscì sulla terrazza con il martini. «Quella laggiù è la mia casa,» indicò. «La vedi? Quella quadrata, tutta bianca con il tetto più scuro delle altre.»

Inutile cercare di individuarla fra tutte, ma Tom fece finta di riconoscerla. «È molto che sei qui?»

«Un anno. Dall'inizio dell'inverno scorso, e ti assicuro che è stato un inverno di quelli duri. Pioggia tutti i giorni, eccetto uno, per tre mesi di fila!»

«Sul serio?»

«Mmmh.» Marge bevette un sorso di martini rimirandosi con aria soddisfatta il paesino davanti a lei. Era anche lei in costume da bagno. Un costume color pomodoro, su cui portava una camicia a righe. Non era brutta, pensò Tom, e aveva persino un bel corpo, per chi amava i tipi in carne. Tom non li amava.

«Ho sentito che Dickie ha una barca,» chiese poi.

«Già, la Pipi, abbreviazione di Pipistrello, Vuoi vederla?»

Indicò un altro punto indefinibile verso un moletto visibile da un angolo della terrazza. Le barche sembravano tutte uguali, ma Marge sostenne che quella di Dickie era più grande delle altre e aveva due alberi.

Dickie li raggiunse sulla terrazza e si versò un bicchiere di martini dalla caraffa sul tavolo. Portava un paio di pantaloni di tela bianca mal stirati e una camicia di lino color cachi, il colore della sua pelle. «Mi dispiace che non ci sia il ghiaccio. Non ho il frigorifero.»

Tom sorrise. «Ti ho portato un accappatoio. Tua madre ha detto che ne desideravi uno. E poi anche dei calzini.»

«Conosci mia madre?»

«Mi è capitato di incontrare tuo padre proprio prima che partissi da New York, così lui mi ha chiesto di andare a cena da loro.»

«Oh! E mia madre come stava?»

«Quella sera era in piedi e stava bene. Però ho l'impressione che si stanchi molto facilmente.»

Dickie annuì. «Ho ricevuto una lettera, questa settimana, dove mi diceva di stare un pochino meglio. Per lo meno non è in un momento di crisi, vero?»

«Non direi. Ho l'impressione che tuo padre fosse molto più preoccupato alcune settimane fa.» Poi, esitando: «È anche preoccupato perché tu non ti decidi a tornare a casa.»

«Herbert ha sempre bisogno di preoccuparsi per qualcosa,» tagliò corto Dickie.

In quel momento Marge e la cameriera arrivarono dalla cucina portando una zuppiera fumante piena di spaghetti, una grossa insalatiera e un cestino pieno di pane. Dickie e Marge si lanciarono in una conversazione circa i lavori di ampliamento di un certo ristorante giù alla spiaggia. Il proprietario stava allargando la terrazza in modo che ci fosse lo spazio per ballare. Ne discutevano lentamente, con gravità e nei minimi dettagli, proprio come gli abitanti di un paesino che si interessano a tutti i minimi cambiamenti che avvengono intorno a loro. Tom restò tagliato fuori.

Impiegò quel tempo a esaminare gli anelli di Dickie. Gli piacevano entrambi: una grande pietra rettangolare verde montata in oro al dito medio della mano destra, e un anello con sigillo, più grosso e lavorato di quello del signor Greenleaf, al mignolo dell'altra mano. Dickie aveva mani lunghe e asciutte, un po' come le sue, pensò Tom.

«Tuo padre mi ha portato a visitare il cantiere Burke-Greenleaf prima che partissi,» annunciò Tom. «Mi ha detto che ha fatto un sacco di cambiamenti dall'ultima volta che l'hai visto. Ne sono rimasto molto colpito.»

«Immagino che ti abbia anche offerto un lavoro. È sempre a caccia di giovani leve promettenti.» Dickie avvolse una forchettata di spaghetti e se la cacciò risolutamente in bocca.

«No, mi spiace deluderti.» Tom ebbe l'impressione che quel pranzo non sarebbe potuto andare in maniera peggiore. Per caso il signor Greenleaf aveva rivelato al figlio che Tom era andato fin lì per fargli la predica e convincerlo a tornare a casa? Oppure Dickie era di umore nero per fatti suoi? Di sicuro era molto cambiato dall'ultima volta che Tom lo aveva visto.

Più tardi Dickie tirò fuori una risplendente macchinetta per il caffè espresso alta almeno mezzo metro e inserì la spina in una presa della terrazza. In pochi attimi zampillarono fuori quattro tazzine di caffè fumante. Maggie ne prese una e la portò dentro per la cameriera.

«A che albergo stai?» chiese Marge a Tom.

Tom le sorrise. «Non me ne sono ancora occupato. Puoi consigliarmene uno?»

«Il migliore è di sicuro il Miramare. Proprio di fronte all'altro, da Giorgio. È l'unico altro albergo del paese ma...»

«Si dice che da Giorgio ti trovi compagnia nel letto,» finì Dickie per lei.

«Già, pare che ci siano le pulci. Però è meno caro,» aggiunse Marge vivacemente, «il servizio, poi è...»

«Inesistente,» l'aiutò Dickie.

«Oggi sei di umore splendido, vero?» chiese Marge ironica, tirandogli una pallina di gorgonzola.

«Direi proprio che mi avete convinto per il Miramare,» annunciò Tom alzandosi. «Devo andare adesso.»

Nessuno dei due lo invitò a restare. Dickie lo accompagnò al cancello di ingresso. Marge rimase in casa. Tom si chiese se fra Dickie e Marge ci fosse del tenero; come dire, una di quelle vecchie storie che si trascinano per mancanza di meglio e che non risultano evidenti a prima vista a un osservatore esterno, dato che non sono certo caratterizzate dall'entusiasmo. Marge era innamorata di Dickie, pensò Tom, ma Dickie la trattava più o meno come se fosse stata la sfasciata cameriera cinquantenne che girava per casa.

«Un giorno o l'altro mi piacerebbe vedere i tuoi quadri,» disse a Dickie sulla soglia.

«Certo, splendido. Immagino che ci rivedremo, se resti da queste parti.» Tom ebbe l'impressione che l'avesse detto solo perché si era ricordato all'ultimo momento che aveva l'accappatoio e i calzini da consegnargli.

«È stata una colazione molto gradevole. Arrivederci, Dickie.»

«Arrivederci.»

Il cancello di ferro si richiuse dietro di lui sferragliando.

 

8

 

Tom prese una stanza al Miramare. Erano ormai le quattro passate quando riuscì a ritirare le sue valigie dall'ufficio postale; a quel punto era così esausto che ebbe a malapena la forza di appendere nell'armadio il suo vestito migliore prima di crollare sul letto. Le voci di alcuni bambini che chiacchieravano sotto la sua finestra giungevano fino a lui così distintamente da dargli l'impressione che si trovassero in camera con lui. In particolare gli schiamazzi e la risata insolente di uno di questi ricorrente fra le parole indistinte faceva fremere e sussultare Tom. Immaginava che stessero commentando la sua visita al «signor» Greenleaf, facendo illazioni poco lusinghiere su quello che sarebbe successo in seguito.

Cosa stava facendo lì? Non aveva amici in quel luogo e non conosceva la lingua. E se si ammalava? Chi si sarebbe preso cura di lui?

Tom si tirò in piedi, rendendosi conto che stava per vomitare. Si mosse molto lentamente sapendo esattamente quanto ancora avrebbe potuto resistere. Aveva tutto il tempo di arrivare fino al bagno. Nella stanza da bagno si sbarazzò non solo del pranzo di quel giorno, ma anche del pesce della sera prima, pensò. Si accasciò di nuovo sul letto e cadde in un sonno profondo.

Si svegliò con la testa confusa e in uno stato di prostrazione. Il sole era ancora alto e il suo orologio nuovo di zecca gli disse che erano solo le cinque e mezzo del pomeriggio. Andò alla finestra e guardò fuori cercando automaticamente la grande casa di Dickie con la terrazza protesa fra le altre case bianche e rosa che si abbarbicavano al fianco della collina davanti a lui. Individuò la solida balaustra rossiccia della terrazza. Marge era ancora lì? Stavano parlando di lui? Udì una risata sovrastare il brusio dei rumori della strada, fu una risata limpida e squillante e così americana da non lasciargli ombra di dubbio. Poi, per un attimo, scorse Dickie e Marge attraversare una stradina laterale vicino a quella principale. Girarono l'angolo e Tom corse alla finestra laterale per vederli meglio. Accanto all'albergo, proprio sotto la sua finestra, c'era una stradina dalla quale stavano arrivando Dickie e Marge. Dickie portava ancora i pantaloni bianchi e la camicia cachi, Marge indossava una camicetta e una gonna. Doveva essere andata a casa a cambiarsi, pensò Tom. Oppure teneva dei vestiti di riserva a casa di Dickie. Dickie era intento a chiacchierare con un italiano sul moletto di legno, poi gli diede del denaro, l'italiano si toccò il berretto e sciolse la gomena di una barca ancorata al molo. Tom guardò Dickie aiutare Marge a entrare in barca. La vela bianca cominciò a salire. Dietro di loro, sulla finestra, il disco infuocato del sole stava tuffandosi nel mare. Tom udì la risata di Marge e quindi un'esclamazione in italiano di Dickie rivolta a qualcuno sul molo. Tom si rese conto che stava osservando una tipica giornata mediterranea: un pisolino dopo il pranzo e poi una corsa in barca a vela, al tramonto. Quindi sarebbe stata l'ora dell'aperitivo preso in un caffè lungo la spiaggia. I due stavano godendosi una giornata perfettamente normale, proprio come se lui non fosse mai esistito. E perché mai Dickie avrebbe dovuto desiderare di ritornare a quel caos di taxi, sotterranea, colletti inamidati e a uno squallido lavoro quotidiano? O anche a una macchina con autista e a lussuose vacanze in Florida e nel Maine? Nulla valeva il piacere di andare in barca a vela indossando vecchi e comodi abiti e di non dover rispondere a nessuno di come impiegava il suo tempo, avendo per di più una bella casa e una cameriera bonacciona che, molto probabilmente, si prendeva cura di tutto. Non gli mancavano neppure i soldi per farsi un viaggetto di tanto in tanto, se ne aveva voglia. Tom si sentì sopraffare da un'ondata incontenibile di invidia e di autocommiserazione.

Non era da escludere che il padre di Dickie avesse detto nella sua lettera al figlio proprio le cose giuste per mettere Tom in cattiva luce. Quanto sarebbe stato meglio, pensò Tom, se si fosse semplicemente seduto in uno dei caffè giù alla spiaggia e avesse cercato di attaccare bottone con aria indifferente! Se le cose fossero cominciate in quel modo forse prima o poi sarebbe anche riuscito a convincerlo a ritornare a casa; ormai era inutile provarci. Tom si maledisse per essere stato così inopportuno e così privo di senso dell'umorismo quella mattina. Niente di quello che prendeva terribilmente sul serio andava mai a buon fine. Avrebbe dovuto saperlo ormai, e da parecchi anni.

Avrebbe lasciato passare qualche giorno, decise. Il primo passo, comunque, era di riuscire a piacere a Dickie. Anzi, era ciò che desiderava più di ogni altra cosa al mondo.

 

9

 

Tom lasciò passare tre giorni. Il mattino del quarto giorno, verso l'ora di pranzo, andò alla spiaggia e trovò Dickie allo stesso posto, davanti alla scogliera grigia che si protendeva dal fianco della montagna verso il mare. Era solo.

«Salve!» esclamò. «Dov'è Marge?»

«Buongiorno. Starà ancora lavorando, probabilmente. Arriverà.»

«Lavorando?»

«Già, Marge scrive.»

«Oh!»

Dickie diede un tiro alla gualcita sigaretta italiana che teneva appesa al lato della bocca. «Dove ti sei cacciato? Credevo che te ne fossi andato.»

«Una piccola indisposizione,» rispose Tom senza dare importanza alla cosa e stendendo la sua salvietta di spugna sulla sabbia, non troppo vicina a quella di Dickie, però.

«Ho passato le giornate fra il letto e il bagno,» ammise Tom con un sorriso. «Ma adesso va meglio.» A dire la verità era stato così male da non riuscire a mettere il naso fuori dell'albergo. Aveva strisciato sul pavimento della stanza all'inseguimento dei raggi di sole che filtravano dalla finestra, in modo da abbronzarsi almeno un po', per non essere bianco come un verme la prossima volta che si presentava in spiaggia. Aveva usato gli ultimi, strenui resti di energia per studiare qualche parola di italiano da un libretto di conversazione acquistato nell'atrio dell'albergo.

Tom andò verso riva ed entrò deciso in acqua fino alla cintura, poi si fermò e si schizzò abbondantemente le spalle. Si abbassò finché l'acqua non gli arrivò al mento, sguazzò un po' fra le onde e quindi tornò lentamente verso riva.

«Posso invitarti per un aperitivo da me in albergo, prima che tu vada su in casa?» chiese quindi a Dickie. «Con Marge, naturalmente, se arriva. Vorrei approfittare dell'occasione per darti l'accappatoio e le calze.»

«Oh già. Grazie. Va bene, vada per l'aperitivo.» Si immerse poi nuovamente nella lettura del suo giornale italiano.

Tom si stese sull'asciugamano. Dopo un po' l'orologio del campanile batté l'una.

«Sembra che Marge non venga,» notò Dickie. «Tanto vale che ci muoviamo.»

Tom si alzò. Camminarono fino al Miramare senza scambiarsi neppure una parola. Tom invitò Dickie a pranzare con lui e questi declinò l'invito dato che la cameriera doveva ormai aver preparato su in casa. Salirono in camera di Tom. Dickie provò l'accappatoio e prese la misura di un calzino accostandolo al piede nudo. Sia l'accappatoio che le calze erano della misura giusta e, come Tom si aspettava, Dickie trovò tutto di suo gusto.

«C'è dell'altro,» aggiunse Tom porgendogli un pacchetto rettangolare avvolto in un foglio di carta con l'intestazione di una farmacia. «Tua madre ti ha mandato anche delle gocce per il naso.»

Dickie non poté trattenere un sorriso. «Non ne ho più bisogno. Soffrivo di sinusite ma adesso non più. Te ne libero comunque.»

Adesso aveva tutto, pensò Tom, tutto ciò che aveva da offrirgli. Avrebbe anche rifiutato l'invito per l'aperitivo, ne era certo. Seguì Dickie verso la porta di ingresso e si fece coraggio. «Sai, tuo padre è molto preoccupato per te. Vorrebbe che tu tornassi a casa. Mi ha pregato persino di farti una bella predica, che naturalmente ti risparmio. Però dovrò pur dirgli qualcosa. Ho promesso di scrivergli.»

Dickie prese a girare la maniglia. «Non ho la minima idea di cosa mio padre pensi che io faccia qui, forse che beva fino a spappolarmi il cervello, o roba del genere. È possibile che quest'inverno vada a casa per un breve periodo, in aereo. Di certo, però, non ho la minima intenzione di tornare a vivere là. Qui sto meglio. Se tornassi a stare in America mio padre mi darebbe la caccia per farmi lavorare alla Burke-Greenleaf, e questo mi impedirebbe di dipingere. Invece a me interessa solo dipingere, d'altra parte penso che la mia vita appartenga esclusivamente a me.»

«Capisco. Lui però insiste che non cercherà affatto di farti lavorare nell'impresa se torni a casa, naturalmente a meno che tu non desideri lavorare nel reparto progettazioni. È convinto che ti piacerebbe molto.»

«Io e mio padre abbiamo già discusso questa questione fino alla nausea. Comunque, grazie per il messaggio e per la roba. È stato molto gentile da parte tua arrivare fin qui a portarmeli.» Dickie gli porse la mano con decisione.

Tom non riusciva a risolversi a stringere quella mano protesa verso di lui. Era il simbolo del suo fallimento; del fallimento nei riguardi di Greenleaf e del fallimento nei riguardi di Dickie. «Credo che ci sia un'altra cosa che dovrei dirti,» proseguì con un sorriso. «Sono qui perché è stato tuo padre a mandarmi espressamente per convincerti a tornare a casa.»

«Cosa intendi dire?» La fronte di Dickie si aggrottò. «Vuoi dire che ti ha pagato il viaggio?»

«Proprio così.» Era la sua ultima occasione di divertire Dickie o di disgustarlo definitivamente, di farlo scoppiare a ridere o di farlo uscire dalla stanza sbattendo la porta per lo schifo. Ma si stava delineando l'ombra di un sorriso, gli angoli della grande bocca di Dickie stavano irresistibilmente piegandosi all'insù, nell'antico sorriso che Tom ricordava così bene.

«Ti ha pagato il viaggio! Roba da non crederci! Gli sta dando di volta il cervello, non ti pare?» Dickie richiuse la porta alle sue spalle.

«Mi ha abbordato in un bar di New York,» proseguì Tom. «Io gli ho detto subito che non ero tuo amico intimo, ma lui ha insistito che avrei potuto aver successo se fossi venuto a trovarti. Così gli ho detto che ci avrei provato.»

«Come faceva a conoscerti?»

«Tramite gli Schriever. Io li conosco appena, comunque è andata così. Ero tuo amico e avrei potuto avere un'ottima influenza su di te.»

Risero insieme.

«Non vorrei che tu pensassi che ho cercato di approfittare di tuo padre,» proseguì Tom. «Vorrei trovarmi un lavoro da qualche parte, qui in Europa, così potrò restituirgli i soldi del biglietto, prima o poi. Mi ha comprato un biglietto di andata e ritorno.»

«Oh, lascia perdere! Tanto andrà a finire nel conto spese della Burke-Greenleaf. Mi vedo la scena di papà che ti abborda in un bar. Che bar era?»

«Da Raoul's. A dire il vero mi ha seguito dal Green Cage.» Tom scrutò il viso di Dickie per cogliervi un'espressione di riconoscimento del locale, che era molto alla moda, ma il viso rimase impassibile.

Presero l'aperitivo al bar dell'albergo, brindando alla salute di Herbert Richard Greenleaf.

«Mi è venuto in mente che oggi è domenica,» proseguì Dickie. «Marge deve essere andata in chiesa. Tanto vale che tu venga su e pranzi con noi. La domenica c'è il pollo. Sai, la vecchia tradizione americana, la domenica pollo.»

Dickie decise di passare da casa di Marge per vedere se la ragazza fosse per caso ancora lì. Salirono alcuni gradini che dalla strada principale si arrampicavano oltre un muretto di pietra, attraversarono un giardinetto privato e salirono altri gradini. La casa di Marge era una specie di edificio basso e trasandato, delimitato da un lato da un giardinetto incolto, con un vialetto di accesso ostruito da un paio di secchi e da un tubo per annaffiare. L'unico tocco femminile era rappresentato dal costume da bagno color pomodoro e da un reggiseno appesi al davanzale di una finestra. Da una finestra aperta Tom intravide una tavola ingombra di carte, con una macchina da scrivere.

«Salve!» esclamò lei aprendo la porta. «Ciao, Tom! Dove ti sei cacciato per tutto questo tempo?»

Offrì da bere, ma scoprì che nella bottiglia era rimasto meno di un dito di gin.

«Non importa, tanto adesso saliamo su da me,» annunciò Dickie. Si muoveva nella camera da letto e nel soggiorno di Marge con un'aria di assoluta familiarità, come se passasse lì metà del suo tempo. Si chinò su un vaso nel quale stava spuntando una minuscola piantina e toccò delicatamente con l'indice la fogliolina ancora tenera. «Tom ha una storiella divertente da raccontarti,» esclamò. «Dai, Tom, digliela!»

Tom prese fiato e cominciò. La rese estremamente divertente e Marge rise come se non ridesse da anni. «Quando l'ho visto entrare dietro di me da Raoul's mi ero rassegnato a battermela dalla finestra sul retro!» La sua lingua si muoveva indipendentemente dal suo pensiero. Aveva il cervello occupato a valutare di quanto le sue azioni stessero salendo nella considerazione di Dickie e di Marge. I loro visi parlavano chiaro.

La salita fino alla casa di Dickie gli sembrò molto più breve della volta precedente. Un profumo delizioso di pollo ben rosolato li raggiunse attraverso la terrazza. Dickie preparò martini per tutti. Tom fece una doccia e quindi fu il turno di Dickie che poi uscì e si versò da bere, come l'altra volta. Ma l'atmosfera, quel giorno, era totalmente diversa.

Dickie si accomodò su una poltrona di vimini e stese una gamba su un bracciolo. «Raccontami di te,» lo esortò con un sorriso. «Di che cosa ti occupi? Parlavi di trovarti un lavoro, prima.»

«Perché me lo chiedi, hai un lavoro da offrirmi?»

«Direi proprio di no.»

«Oh, so fare un sacco di cosette. Posso fare il cameriere, il bambinaio, il contabile. Senza scherzi, ho il bernoccolo dei numeri. Anche se sono ubriaco fradicio sono sempre in grado di accorgermi se il cameriere sta cercando di fregarmi. Posso falsificare qualunque firma, pilotare un elicottero, maneggiare i dadi, imitare praticamente chiunque, cucinare, e persino fare un numero a solo in un night club nel caso che il presentatore di turno si ammali all'improvviso. Devo continuare?» Tom era proteso in avanti, e teneva ostentatamente il conto delle attività che enunciava. Era vero, avrebbe potuto andare avanti all'infinito.

«Che razza di numero a solo potresti fare?» chiese Dickie.

«Ma...» Tom balzò in piedi. «Questo, per esempio.» Si mise rapidamente in posa con una mano sul fianco e un piede proteso in avanti. «Ecco Lady de Tontis alla scoperta della sotterranea americana. A Londra non ha mai messo piede nella metropolitana, ma vuole portarsi a casa qualche esperienza dell'America dal sapore genuino.» Tom mimò la scena passo a passo. Cercò la monetina, la trovò, constatò che non entrava nella fessura, comprò l'apposito biglietto, rimase a lungo incerto nel tentativo di decidere in che direzione scendere, si agitò a dovere per il fragore del treno e per la lunga corsa sotterranea, e rimase di nuovo incerto sulla direzione da prendere per uscire dal dedalo di corridoi. A questo punto Marge uscì sulla terrazza e Dickie le spiegò che l'amico stava imitando una signora inglese nella sotterranea di New York, ma Marge non capì e chiese confusa: «Cosa?» La dama inglese intanto aveva optato per una porta che non poteva essere altro che la porta della toilette per signori a giudicare dal moto di orrore che la squassò da capo a piedi e che aumentò fino al sopraggiungere del collasso finale. A questo punto Tom svenne con grazia sul parapetto della terrazza.

«Magnifico!» urlò Dickie battendo le mani.

Marge non rideva, invece. Anzi era rimasta immobile con un'espressione vagamente perplessa. Nessuno dei due si prese la briga di spiegarle la scenetta. Non sembrava comunque il tipo di persona che si diverte con quel genere di umorismo, pensò Tom.

Fiero di sé, Tom ingollò una sorsata di martini. «Te ne farò un'altra apposta per te un'altra volta,» annunciò a Marge, con l'intento di far sapere a Dickie che il suo repertorio era molto ricco.

«È pronto da mangiare?» chiese Dickie alla ragazza. «Sono affamato.»

«Sto aspettando che quei maledetti carciofi si cucinino. Sai bene che il fornello centrale non serve quasi a nulla.» Sorrise a Tom. «Dickie è terribilmente conservatore rispetto a certe cose. In realtà è conservatore solo per le cose con cui non ha molto a che fare. L'unica cucina, qui, è ancora una vecchia cucina a legna, e poi rifiuta di comperare un frigorifero o almeno una ghiacciaia.»

«Questo è uno dei motivi per cui sono scappato dall'America,» spiegò Dickie. «D'altra parte queste cose sono uno spreco di denaro in un paese dove ancora si trova tanta manodopera. Cosa farebbe Ermelinda tutto il giorno se fosse in grado di cucinare un intero pasto in meno di mezz'ora?» Poi, alzandosi: «Vieni con me, Tom. Voglio farti vedere qualcuno dei miei quadri.»

Dickie gli fece strada nella stanza che aveva intravisto un paio di volte andando in bagno. La stanza era ammobiliata con un lungo divano fra le due finestre e un grande cavalletto piazzato proprio al centro. «Questo è un ritratto di Marge, al quale sto lavorando adesso,» annunciò indicando la tela ancora incompiuta.

«Oh,» commentò Tom con interesse. A suo parere non era buono, anzi, non poteva essete buono a parere di nessuno. L'accentuazione del sorriso, nel ritratto, era eccessiva, la carnagione, poi, era rossastra come quella di un indiano. Se Marge non fosse stata l'unica ragazza bionda nei paraggi, sarebbe stato impossibile cogliere una benché minima somiglianza.

«Poi ci sono questi paesaggi, nient'altro che paesaggi,» proseguì Dickie con una risatina ironica, per quanto fosse evidente che desiderava che Tom dicesse qualcosa di lusinghiero, dato che ne era ovviamente fiero. Erano tutti piuttosto sciatti e affrettati, invariabilmente uguali nella loro monotonia. Quasi tutti si basavano sul contrasto delle tinte blu elettrico e terra di Siena, tetti color bruno rossastro, montagne, e mari azzurro stridente. Lo stesso azzurro degli occhi di Marge.

«E questo è il mio sforzo surrealista,» annunciò Dickie appoggiandosi una tela alla gamba.

Tom sbatté le palpebre imbarazzato, quasi vergognoso. Era ancora Marge, senza dubbio, con una massa di capelli simili a un groviglio di serpenti è, terrificante tocco finale, con due paesaggi negli occhi: in un occhio, infatti, c'era uno scorcio in miniatura delle casette e della montagna di Mongibello, nell'altro c'era la spiaggia piena di figurette rosse. «Sì, questo mi piace proprio,» mentì Tom. Il signor Greenleaf aveva ragione. Eppure questa passione dava un senso alla vita di Dickie e soprattutto, si figurò Tom, lo teneva lontano dai guai, esattamente come avveniva per migliaia di altri pittori dilettanti in tutta l'America. Però gli dispiaceva che Dickie rientrasse in quella categoria di mediocri dilettanti, perché inconsciamente desiderava che Dickie valesse di più, molto di più.

«Certo, come pittore non diventerò mai qualcuno,» continuava intanto Dickie, «però dipingere mi piace e mi dà molte soddisfazioni.»

«Certo,» convenne Tom desiderando dimenticare al più presto le croste di Dickie e che razza di pittore fosse. «Mi fai vedere il resto della casa?»

«Ma sicuro! Non hai ancora visto il salone, vero?»

Dickie aprì una porta che dal corridoio dava su una sala molto ampia con un grande camino, alcuni divani, scaffali pieni di libri e tre finestre, una che dava sulla terrazza, una sulla collina dall'altra parte della casa e una sul giardino davanti all'ingresso. In estate, gli raccontò Dickie, preferiva non utilizzare quella stanza per usarla in inverno come un gradevole scenario diverso. Era più una biblioteca che un soggiorno, pensò Tom. Ne fu sorpreso. Si era figurato Dickie come un giovane intellettualmente non molto dotato che prendeva la vita come un gioco. Forse si era sbagliato. Ma era certo di non sbagliarsi sul fatto che in quel momento Dickie era profondamente annoiato e aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a ritrovare il gusto della vita.

«E sopra cosa c'è?» chiese Tom.

Il piano superiore era deludente. La camera di Dickie nell'angolo della casa sovrastante la terrazza era nuda e austera: un letto, un cassettone e un'unica sedia a dondolo dall'aria un po' spersa in tutto quello spazio. Il letto, poi, era stretto, appena più largo di un lettino singolo. Le altre tre stanze del primo piano non erano neppure arredate o, per lo meno, non completamente. In una c'era un mucchio di legna da ardere e una pigna di tele e di altro materiale alla rinfusa. Non c'era sicuramente alcuna traccia di Marge da nessuna parte, e meno che mai nella camera da letto di Dickie.

«Che ne diresti di andarcene a Napoli, qualche volta?» chiese Tom. «Non ho avuto occasione di vedere nulla mentre venivo qui.»

«Va bene,» rispose Dickie. «Marge e io dobbiamo già andarci sabato pomeriggio. Andiamo a cena lì quasi tutti i sabati e poi ci permettiamo il lusso di una bella corsa in taxi o in carrozzella per rientrare. Puoi venire con noi, se vuoi.»

«Intendevo durante il giorno, in un giorno feriale. In modo da poterla visitare bene,» aggiunse Tom sperando di tagliar fuori Marge dalla gita. «Oppure tu dipingi tutto il giorno?»

«No. C'è una corriera alle dodici tutti i lunedì, mercoledì e venerdì. Potremmo andare domani, se ti va.»

«Splendido,» esclamò Tom, per quanto non fosse ancora del tutto sicuro che Marge non sarebbe stata della partita. «Marge è cattolica?» chiese poi mentre scendevano al piano di sotto.

«Cattolica accanita! È stata convertita circa sei mesi fa da un italiano per il quale si era presa una cotta furibonda. Al diavolo se sapeva parlate, quel tizio! È stato qui solo un paio di mesi, per riprendersi da un incidente di sci. E Marge adesso si consola per la perdita di Edoardo abbracciandone la religione.»

«Ero convinto che fosse innamorata di te.»

«Di me? Non essere assurdo!»

Quando arrivarono sulla terrazza il pranzo era servito. C'era persino pane tostato, appena uscito dal forno, e burro, preparato da Marge.

«Conosci Vic Simmons a New York?» chiese Tom a Dickie.

Vic aveva una specie di salotto artistico e letterario a New York, ma Dickie non ne era al corrente. Tom gli chiese di altre due o tre persone, ma senza successo.

Tom sperava che dopo il caffè Marge se ne andasse, ma non fu così. Un momento che la ragazza li lasciò soli sulla terrazza Tom chiese all'amico: «Posso invitarti a cena in albergo, stasera?»

«Grazie, per che ora?»

«Facciamo alle sette e mezzo. Così abbiamo il tempo per berci un paio di aperitivi con calma. Dopo tutto sono soldi di tuo padre,» aggiunse poi in tono malizioso.

La cena, quella sera, fu gradevole ma la presenza di Marge impedì a Tom di rilassarsi completamente, tanto che non ebbe neppure voglia di lanciare qualcuna delle battute spiritose per le quali era famoso. Marge conosceva alcuni commensali ai tavoli vicini e dopo cena si scusò e andò a prendere il caffè a un altro tavolo.

«Quanto tempo pensi di fermarti?» chiese Dickie.

«Oh, almeno una settimana, direi.»

«Pensavo...» Il viso di Dickie era arrossato per il vino, che doveva averlo messo anche di ottimo umore. «Pensavo che se hai intenzione di fermarti un po' di più, potresti stare da me. Non ha senso che tu stia in albergo, a meno che tu non lo preferisca.»

«Ti sono molto grato,» rispose Tom con entusiasmo.

«Nella stanza della donna, che non hai visto, c'è un letto. Ma Ermelinda non dorme da me. Sono sicuro che in giro per casa riusciamo a racimolare i mobili necessari, se pensi che possa andare.»

«Sono certo che andrà benissimo. A proposito, tuo padre mi ha dato anche seicento dollari per il mio mantenimento e me ne rimangono ancora cinquecento. Penso che potremmo usarli per divertirci un po', che ne dici?»

«Cinquecento dollari!» esclamò Dickie come se non avesse mai visto tanti soldi tutti insieme in tutta la sua vita. «Con quella cifra potremmo persino prenderci una macchina!»

Tom lasciò cadere l'idea dell'automobile. Non era quello che intendeva per divertimento. Avrebbe preferito andarsene in aereo a Parigi. Vide che Marge stava tornando al loro tavolo.

Traslocò il giorno seguente.

Dickie ed Ermelinda avevano sistemato un armadio e un paio di sedie in una delle stanze al piano di sopra. Dickie aveva persino appeso alle pareti con delle puntine da disegno alcune riproduzioni di mosaici della chiesa di San Marco a Venezia. Quindi Tom lo aiutò a trasportare la brandina dalla stanza della cameriera al piano di sopra. Prima di mezzogiorno avevano terminato, un po' brilli per il Frascati che avevano continuato a bere mentre lavoravano.

«Allora che ne dici, hai ancora intenzione di andare a Napoli?» chiese Tom.

«Certamente,» rispose Dickie guardando l'orologio. «Sono le dodici meno un quarto, ce la facciamo comodamente a prendere la corriera di mezzogiorno.»

Non portarono nulla tranne la giacca e il libretto di traveller's cheques di Tom. Mentre arrivavano dalla salita accanto all'ufficio postale l'autobus stava spuntando dietro la curva. Tom e Dickie attesero che i passeggeri in arrivo scendessero e quindi Dickie si arrampicò dentro, andando quasi a sbattere contro un giovane dai folti capelli rossi con una vistosa camicia sportiva. Ovviamente un americano.

«Dickie!»

«Freddie!» urlò Dickie di rimando. «Che diavolo fai da queste parti?»

«Sono venuto a farti una visitina, a te e ai Cecchi. Mi ospitano per qualche giorno.»

«Sei uno schianto! Sto andando a Napoli con un amico. Tom, ti presento Freddie Miles.»

L'americano, pensò Tom, era orribile. Odiava i capelli rossi, soprattutto quel genere rosso carota che accompagna una carnagione bianchiccia e lentigginosa. Freddie aveva occhi di uno strano colore marrone rossiccio, grandi e sfuggenti, un po' come se fosse strabico, o come se facesse parte di quella categoria di persone che non ti guardano mai in faccia mentre ti parlano. Inoltre era decisamente grasso. Tom distolse lo sguardo, impaziente che Dickie finisse di parlare con lui. Si rese conto che l'autobus stava aspettando solo loro, e loro continuavano a parlare di sci, combinando di fare una gita o di incontrarsi a dicembre in una città che Tom non aveva mai sentito nominare.

«Per il due dicembre saremo almeno una quindicina, su a Cortina,» diceva intanto Freddie. «Sarà uno schianto, come l'anno scorso. Ci faremo almeno tre settimane, se ci bastano i soldi.»

«Non solo i soldi, ma anche le forze!» concluse Dickie. «Ci vediamo stasera, Fred!»

Tom montò a bordo dietro Dickie. I sedili erano tutti occupati e dovettero strizzarsi fra un tizio magro e sudato che sapeva di rancido e due donnoni che sapevano di molto peggio. Mentre la corriera lasciava il paese Dickie si ricordò che Marge doveva pranzare da lui, come al solito, perché il giorno prima avevano pensato che il trasloco di Tom avrebbe finito per far saltare la gita a Napoli. Dickie urlò all'autista di fermarsi. La corriera frenò di botto con uno stridore di freni e una sbandata che fece cadere tutto ciò che non era solidamente fissato all'interno. Dickie tirò fuori la testa da un finestrino e chiamò con voce tonante: «Gino, Gino!»

Un ragazzino arrivò di corsa a prendere il biglietto da cento lire che Dickie gli porgeva, dicendogli qualcosa in italiano. Il ragazzino rispose: «Subito, signore,» e partì di corsa oltre la curva. Dickie ringraziò l'autista e la corriera si rimise in moto. «Gli ho detto di avvertire Marge che saremmo stati di ritorno per stasera, ma molto tardi probabilmente,» lo informò poi Dickie.

«Ottimo.»

L'autobus li lasciò su una vasta piazza affollata in città e si ritrovarono subito circondati da carretti stracolmi di uva, fichi, frittelle e meloni mentre ragazzini li inseguivano per offrire loro penne stilografiche e giocattolini a molla. Ma Dickie sapeva come aprirsi un varco in quel caos.

«Conosco un posticino fantastico per il pranzo,» annunciò Dickie. «Una vera pizzeria napoletana, di quelle autentiche. Ti piace la pizza?»

«Sì.»

La pizzeria era in cima a una stradina troppo stetta e ripida per permettere alle macchine di salirvi. Davanti alla porta c'era la tradizionale tenda di perline per tener lontane le mosche e su ogni tavolo troneggiava una caraffa di vino. In tutto c'erano sei tavolini. Era proprio il tipo di locale dove puoi startene seduto per ore a bere vino e a chiacchierare senza che nessuno venga a darti noia. Vi rimasero fino alle cinque, quando Dickie annunciò che era ora di andare in Galleria. Dickie si scusò per non averlo portato al museo dove c'erano opere di Leonardo da Vinci e El Greco, ci sarebbero andati la prossima volta, promise. Dickie aveva parlato quasi tutto il tempo di Freddie Miles e Tom aveva trovato la conversazione noiosa e banale come il viso di Freddie. Questi era figlio del proprietario di una catena di alberghi in America. Il giovane era drammaturgo, o almeno così gli piaceva far credere, pensò Tom, dato che in vita sua aveva scritto solo due commedie che non erano mai state messe in scena da nessuna parte. Freddie aveva una casa a Cagnes-sur-Mer e Dickie era stato suo ospite per parecchie settimane prima di trasferirsi in Italia.

«Questa sì che è vita!» annunciò Dickie espansivo in Galleria. «Cosa c'è di meglio che starsene seduti a un tavolino a guardare la gente passare? In un certo senso ti aiuta a essere più lucido verso te stesso. Gli anglosassoni fanno molto male a non guardare mai la gente che passa, seduti a un tavolino all'aperto.»

Tom annuì. Non era la prima volta che sentiva quella considerazione. Sperava che prima o poi dicesse qualcosa di originale o di profondo. Dickie era molto attraente. Aveva una bellezza insolita, con quel viso lungo, dai lineamenti aristocratici, quegli occhi vivi e intelligenti e il portamento fiero anche quando era vestito di stracci. In quel momento portava un paio di sandali sfondati e i soliti pantaloni, non più bianchi, ormai. Nonostante tutto stava seduto con aria regale come se la Galleria gli appartenesse, rivolgendosi confidenzialmente in italiano al cameriere che aveva portato i caffè.

«Ciao!» disse ad alta voce a un ragazzo italiano che passava in quel momento.

«Ciao, Dickie!»

«Cambia i traveller's cheques di Marge ogni sabato,» spiegò poi a Tom.

Un italiano elegantemente vestito salutò Dickie con una calorosa stretta di mano e sedette al loro tavolo. Tom si sforzò di ascoltare la loro conversazione e riuscì persino a afferrare alcuni termini qua e là. Cominciava a sentirsi stanco.

«Ti va di andare a Roma?» gli chiese Dickie all'improvviso.

«Sicuro,» rispose Tom. «Adesso?» Si alzò per pagare la cifra sullo scontrino, cacciato sotto una delle tazzine.

L'italiano aveva una lunga Cadillac grigia con tanto di tendine veneziane al lunotto posteriore, un clacson a quattro tonalità, e una radio che urlava a tutto volume per la gioia di Dickie e del suo compagno. Arrivarono alla periferia di Roma in meno di due ore. Mentre percorrevano la via Appia Antica, soprattutto in suo onore, Tom si rizzò sul sedile per ammirarla meglio, dato che non l'aveva mai vista prima. In alcuni punti la strada era accidentata e mostrava ancora tratti dell'antico percorso romano, gli spiegò l'italiano. I campi a destra e a sinistra erano piatti e desolati nella luce del crepuscolo come antichi cimiteri con rare tombe, o resti di tombe, ancora in piedi. L'italiano li lasciò in mezzo a una strada al centro della città e li salutò con un brusco arrivederci.

«Va di fretta,» gli spiegò Dickie. «Deve incontrare la sua ragazza e andar via prima che il marito rientri alle undici. Ah, ecco lo spettacolo che cercavo. Dai, andiamo.»

Comprarono i biglietti per lo spettacolo della sera. Mancava un'ora all'inizio così decisero di andare a via Veneto, sedettero a uno dei tanti tavolini sul marciapiede e ordinarono da bere. Tom notò che Dickie non conosceva nessuno a Roma, o per lo meno nessuno dei passanti, così sedettero a osservare centinaia di italiani e di americani passeggiare per strada. Tom non capì molto dello spettacolo, una commedia musicale, ma fece del suo meglio, e fu contento quando Dickie propose di uscire prima che fosse finito. Presero una carrozzella e fecero il giro della città, incontrando una fontana dopo l'altra, oltre il Foro, attorno al Colosseo. La luna era spuntata. Tom era ancora un po' insonnolito ma la sonnolenza, mista all'eccitazione di trovarsi a Roma per la prima volta, lo mise in uno stato d'animo gioviale e disponibile. Sedevano affondati nel sedile della carrozzella con le gambe comodamente accavallate godendosi il fresco attraverso i sandali, e Tom aveva quasi l'impressione di guardarsi in uno specchio ogni volta che si girava a guardare la gamba di Dickie e il piede sollevato quasi a toccare il suo. Avevano più o meno la stessa statura e lo stesso peso, forse Dickie era lievemente più pesante, ma portavano accappatoi della stessa taglia, persino i calzini e probabilmente anche le camicie.

Dickie arrivò a dire: «Grazie, signor Greenleaf,» quando Tom pagò la corsa in carrozzella al conducente. Tom sentì uno strano rimescolio.

Verso l'una di notte, dopo una bottiglia e mezzo di vino in due, bevuta a cena, erano di umore ancora più gioviale. Camminarono tenendosi il braccio sulla spalla e cantando finché, girando un angolo, andarono a sbattere contro una ragazza facendola cadere per terra. L'aiutarono a rialzarsi scusandosi e si offrirono di accompagnarla a casa. La ragazza rifiutò ma loro insistettero, mettendosi uno da una parte e uno dall'altra della nuova compagnia. Doveva prendere il tram, annunciò lei. Ma Dickie non ne volle neppure sentir parlare. Fermò un taxi e vi montarono, sedendo molto educatamente sugli strapuntini con le braccia conserte come perfetti valletti, mentre Dickie le parlava facendola ridere. Tom riusciva a capire quasi tutto quello che Dickie diceva. Aiutarono la ragazza a scendere dalla vettura in una stradina simile a quelle napoletane e lei esclamò: «Grazie tante!» poi, dopo aver stretto la mano a entrambi, svanì nell'oscurità di un portone.

«Hai sentito quello che ha detto?» chiese Dickie. «Ha detto che siamo gli americani più simpatici che abbia mai incontrato!»

«Puoi immaginare cosa avrebbe fatto il solito americano volgare in un'occasione simile, vero? L'avrebbe semplicemente violentata,» asserì Tom.

«Dove diavolo siamo adesso?» chiese Dickie girando su se stesso.

Non ne avevano la minima idea. Camminarono per parecchi isolati senza trovare il minimo indizio, neppure un nome che ricordasse loro qualcosa. Pisciarono contro un muro annerito e proseguirono la loro peregrinazione.

«Appena spunta l'alba riusciremo a capire dove ci troviamo,» lo rassicurò Dickie allegramente. Poi, guardando l'orologio: «Mancano solo un paio d'ore.»

«Magnifico.»

«D'altra parte vale la pena accompagnare una ragazza così simpatica a casa, non ti pare?» gli chiese Dickie un po' incerto sulle gambe.

«Certo che vale la pena. Mi piacciono le ragazze,» rispose Tom con aria di protesta. «Però è meglio che Marge non sia qui con noi stasera. Se Marge fosse stata con noi non avremmo mai potuto accompagnare a casa quella ragazza.»

«Oh, non saprei,» ribatté Dickie con aria dubbiosa e concentrandosi sulle gambe traballanti. «Marge non è...»

«Voglio dire che se Marge fosse stata con noi ci saremmo preoccupati di trovarci un albergo per la notte. Così, probabilmente, a quell'ora saremmo stati in quel maledetto albergo, perdendoci questa visita della città.»

«Questo è proprio vero!» E Dickie gli circondò le spalle col braccio.

 

Dickie gli scuoteva la spalla con forza. Tom cercava di rotolare per sottrarsi alla stretta e afferrargli la mano. «Dickieee!» Tom spalancò gli occhi e si trovò davanti il viso arcigno di un poliziotto.

Si rizzò a sedere. Era in mezzo a un prato e l'alba era spuntata. Dickie sedeva sull'erba accanto a lui e parlava con aria dignitosa al poliziotto. Tom tastò con la mano alla ricerca del pacchetto di traveller's cheques. C'era ancora.

«Passaporti!» intimò di nuovo severamente il poliziotto, e di nuovo Dickie si lanciò nella sua dignitosa spiegazione dei fatti.

Tom sapeva esattamente cosa stava raccontando l'amico. Stava raccontando che erano americani e che non avevano con sé il passaporto perché erano usciti con l'intenzione di fare solo quattro passi e di godersi la vista delle stelle. Tom ebbe voglia di ridere. Si alzò in piedi barcollante e cercò di ripulirsi gli abiti alla meglio. Anche Dickie lo imitò e lentamente presero a camminare mentre il poliziotto continuava a lanciare le sue invettive. Dickie gli rispose ancora qualcosa in tono cortese ed esplicativo. Per lo meno non li stava seguendo.

«Bisogna ammettere che non abbiamo un bell'aspetto,» convenne Dickie.

Tom annuì. Sui pantaloni, all'altezza del ginocchio, c'era un lungo squarcio, probabilmente dovuto alla caduta. I loro abiti erano tutti stazzonati, pieni di macchie d'erba, di polvere e di sudore. Adesso, però, il freddo del mattino li faceva tremare come foglie. Entrarono nel primo bar che trovarono e fecero colazione con cappuccino e brioches sui quali buttarono giù parecchi brandy italiani dal sapore terribile ma che ebbero il potere di scaldarli un po'. Poi scoppiarono a ridere. La sbornia non era ancora passata.

Per le undici furono a Napoli, appena in tempo per prendere la corriera per Mongibello. Era bello pensare di poter tornare di nuovo a Roma, vestiti decentemente, a visitare tutti i musei che non avevano visto, ma era ancora più bello pensare di crogiolarsi al sole sulla spiaggia di Mongibello. Ma non riuscirono ad andare tanto lontano. Fecero la doccia a casa di Dickie e caddero addormentati come sassi finché Marge non li svegliò alle quattro del pomeriggio. Marge era piuttosto seccata perché Dickie non aveva mandato un telegramma per avvertirla che avrebbe passato la notte a Roma.

«Non che mi importi nulla di dove passi la notte, ma pensavo che fossi a Napoli e sai bene che a Napoli può succedere di tutto.»

«Ohh,» mugolò Dickie lanciando un'occhiata a Tom. Era intento a preparare un Bloody Mary per tutti.

Tom tenne la bocca chiusa. Non aveva nessuna intenzione di raccontare a Marge come avevano passato la notte. Che immaginasse pure quello che voleva. Dickie gli aveva dimostrato chiaramente di essersi divertito un mondo. Tom notò che la ragazza lanciava a Dickie occhiate di disapprovazione per gli evidenti postumi della sbronza, per il viso non rasato e per il cocktail che stava bevendosi in quel momento. C'era qualcosa negli occhi di Marge, quando era molto seria o arrabbiata, che la faceva sembrare vecchia e saggia malgrado gli abiti da scolaretta ingenua che indossava, i capelli sciolti al vento e l'aria da ragazzina all'acqua e sapone. Adesso aveva un'espressione da mammina o da sorella maggiore, un'espressione di atavica disapprovazione femminile per le marachelle maschili. Roba da pazzi! O che fosse semplicemente gelosia? Sembrava rendersi conto del fatto che Dickie aveva creato un legame più intimo con lui in ventiquattro ore, proprio per il fatto di essere maschi entrambi, di quanto lei avrebbe mai avuto con lui, che l'amasse o no. Ma Dickie non l'amava. Tuttavia, dopo pochi attimi si rilassò e cambiò espressione. Dickie lo lasciò solo con Marge sulla terrazza. Tom approfittò per chiederle del suo libro. Era un libro su Mongibello, rispose lei, illustrato con fotografie scattate da lei. Gli disse di essere originaria dell'Ohio e gli mostrò una foto, che portava sempre con sé, della casa di famiglia. Era una semplice casa di legno, molto comune, ma per lei rappresentava la sua «casa, dolce casa». Usava una scelta di termini abominevoli, pensò Tom, come quell'altro aggettivo usato poco prima per rinfacciare a Dickie di essere ubriaco. Gli aveva detto: «Hai l'aria assolutamente rintronata.» D'altra parte tutto in lei era abominevole, non solo la sua scelta di vocaboli ma anche la sua pronuncia. Tom si sforzò di essere particolarmente gentile con lei. Sentiva di poterselo permettere. L'accompagnò fino al cancello e si salutarono cordialmente. Nessuno dei due, però, disse una parola circa la possibilità di rivedersi più tardi in serata o il mattino seguente. Non c'erano dubbi. Marge era arrabbiata con Dickie.

 

10

 

Per tre o quattro giorni Marge si tenne alla larga da loro. La vedevano soltanto alla spiaggia, ma la ragazza era decisamente fredda nei loro confronti. Certo, sorrideva e parlava come prima o forse addirittura più di prima, ma c'era in lei una nota di formalità che induceva a mantenere le distanze. Tom osservò che a Dickie la cosa dava fastidio, non abbastanza però da indurlo a cercare un colloquio in privato con Marge. In effetti non era più stato a tu per tu con la ragazza da quando Tom si era trasferito in casa di Dickie.

Infine, per mostrare che non era del tutto insensibile rispetto a Marge, Tom si decise a confidare a Dickie che aveva l'impressione che lei si comportasse in modo un po' strano con loro.

«Oh, è di umore instabile,» obiettò Dickie. «Forse è in un periodo di creatività, e non le piace avere troppa gente intorno quando è in vena di produrre.»